193893Ore di città/131988Delio Tessa

San Giorgio dei Lattai

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Ho letto una circolare del Sindacato Pittori ai loro aderenti. È bandito un concorso promosso dalla Federazione Lattivendoli per una tela raffigurante San Giorgio, il loro patrono, e da mettere...

... dove la metteranno?... Mah! Forse in riproduzione sulle bottiglie del latte come una specie di ex libris o sui furgoni azzurri della centrale!

Come fu poi che San Giorgio, chiuso in corazza, armato di lancia e col piede sul drago si ridusse a protettore della più pacifica delle industrie e del men truculento dei commerci, qualcun altro ve lo dirà.

A Milano se ne dava una spiegazione curiosa che metterete insieme a tant'altre baggianate.

Quando c'erano i Navigli ogni anno, fra Marzo ed Aprile, si andava incontro alla cosiddetta «sutta»; si toglieva cioè l'acqua per circa un mese allo scopo di pulire il fondo melmoso perché puzzasse un po' meno. Finita la teletta si riaprivano le conche e siccome l'acqua tornava a un di presso a San Giorgio così la gente diceva che veniva per i lattai che se ne servivano per battezzare il latte. San Giorgio dunque l'era el sant di lattée non già per le sue virtù guerresche ma solo in quanto apportator d'acqua!

La panzana non è né bella né ben trovata, ma ormai è scritta.

Se non sapessi di dare un dolore a mia mamma direi che anche i proverbi cominciano a mancar di parola.

Il sole è calato da un pezzo e son qui colla finestra aperta. È una tiepida sera e non c'è alcun segno dell'imminenza dell'invernin de San Giorg eppure c'è chi sostiene d'aver visto la neve sulle piante che i lattai solevano esporre il ventiquattro di Aprile alle porte delle loro botteghe.

La brutta stagione, cacciata troppo presto dai proverbi milanesi, si vendicava così con questi ritorni traditori. Già col ventun di Gennaio nasceva la speranza di più chiari giorni:

a Santa Agnesa
cor la luserta per la scesa.

Bello il distico popolare: ci vedo dentro un pomeriggio nitidissimo e brillante, ci sento un sole che verso le tre o le quattro è riuscito a scaldare un po' le pietre...

Poi il tema primaverile è ripreso dal merlo nel suo canto. Dopo i giorni suoi, dopo i dì de la merla - gli ultimi tre di gennaio, rigidissimi - se ne ride il merlo sui rami brulli del duro mese ch'è passato e canta:

Genée, Genée,
i mè merlott i oo levée.
E siamo al 2 di Febbraio, alla Purificazione di Maria Vergine, siamo alla Madonna de la Serioeula o Serioeura probabilmente da «cera». E, per la benedizione della cera
a la Madonna de la Serioeura
de l'inverno semm foeura.
Se il tempo è bello però perché
se pioeuv o tira vent
de l'inverno semm dent.
Inverno o non inverno il sole a Febbraio scotta di già e ha fama di mandare al Creatore. È consigliato ai mariti assetati di libertà:
chi n'à assée de la miée
le manda al sô de Fevriée...
... e amen!

Oggidì nelle botteghe dei lattai non ci son che bottiglie sterilizzate e tappate. Le mucche nelle loro stalle sono sane come le corna che portano sulla testa. Con tutto ciò la gente si ammala e muore ch'è una bellezza. Come va questa faccenda?

Ai tempi dei tempi, ben prima della pastorizzazione e dei Consorzi, gli spacci del latte avevano una strana fisionomia d'aria aperta che veniva loro dal banco color celeste, dalle pareti azzurrine e dalle piante verdi messe qua e là e all'ingresso. C'erano sui palchetti in lunga serie, dalle più grandi alle più piccole, i caldarinn e dietro al banco c'era il famoso seggion del latt, onorata tomba delle mosche in estate. I buoni clienti se le trovavano poi a casa nei recipienti e le toglievano senza scomporsi come si liberavano con filosofica pacatezza dai capelli che scoprivano nella minestra!

Ho assistito all'agonia dei vecchi lattai. Il nostro teneva bottega in contrada dell'Unione all'angolo di san Vittorello. Disertammo per i primi. I fratelli Vittadini, amicissimi della mia famiglia e ai quali i milanesi se non fossero immemori dovrebbero pur qualche riconoscenza perché ad essi si deve il primo fortunato tentativo di produzione igienica e razionale del latte, ci ebbero subito per clienti.

La moglie del nostro antico lattivendolo, un donnone lattiginoso coi piedi dolci, fece gli ottanta gradini di via Olmetto per venir su da noi a raccomandarsi e a protestare. Non voleva perdere la «posta» e poi ce l'aveva coi sciori che deven fà i sciori e lasciare il lavoro ai poveri. Perché - vedete - questa era una delle massime dell'Ottocento. Il signore doveva fare il signore e cioè non far niente. Il lavoro era soltanto per chi ne aveva bisogno: «Se tutti lavorano - diceva il donnone - cosa succede? non ce ne sarà abbastanza per tutti».

Penso che abbia avuto ragione, comunque le sue proteste non le valsero: perse la «posta». A volte la tradizione contraddice ai proverbi. Così non è facile mandar d'accordo l'invernin de San Giorg coll'uso milanese della prima scampagnata per la spargiada. Quando il ragionier Leoni andava a caccia della lepre dove poi s'è fabbricato una villetta in via Plinio, noi tre, per San Giorgio, ci si trovava cogli impiegati della Cassa di Risparmio - i colleghi di mio padre - sotto una toppia alla Ghisolfa. Il calesse si perdeva nei viottoli di campagna per arrivarci; eppure la Ghisolfa era pressapoco fra la stazione della Bullona e via Canonica!

«Uuhh!... va là... canoccial... dove l'è sta cassina?»

Canocciai erano i ronzini dei brum detti così per la facoltà che avevano di allungarsi nello sforzo del tirare... ... e poi a tavola... gli asparagi e la panerada e el pan de mein!...

Alfredo Panzini è un ardito novatore della lingua e non ha nessuna paura di immettere voci dialettali nell'italiano. Lo lodo e lo ringrazio. L'ho visto scrivere: «nova noventa». Bravo! Il mio amico Patrucco vuol lanciare la parola «barbellare» per «tremare dal freddo». Benissimo! Barbell è il doppio mento che trema quando battono i denti.

Però, con tutta la buona volontà, non mi sentirei nemmeno per la ricorrenza di San Giorgio di portare agli onori della lingua il termine che ho visto usato da un prestinaio su un cartellino réclame da lui esposto in vetrina

QUI
SI VENDE PANE DI MEINO.