Ore di città/41
Quand'ero scolaro
editForse voi avete già buttato via i libri della vostra adolescenza ed è un gran peccato; non dico per i vostri figli - giovinetti del giorno d'oggi - ai quali non possono più interessare, ma per voi stessi che rileggendoli rivivreste un passato veramente remoto. Per quel che mi riguarda ne ho ancora qualcuno di questi libri-strenna. Ho cercato stamane dappertutto I nani burloni; dovevano esserci ma non li ho trovati. Mi rammento che la mamma me li regalò una mattina di ritorno dal nostro dentista, il dottor Mazzucchelli, in premio per essermi lasciato cavare un dente senza far scene secondo il mio solito. In vetrina dal Treves la réclame del libro diceva:
- Se i vostri bambini son bravi e son buoni
- comprate le gesta dei nani burloni.
Poi c'era un altro distico per i bambini cattivi che concludeva sempre per l'acquisto, ma non me lo ricordo.
Invece dei Nani burloni è saltato fuori Quand'ero scolaro dell'Anna Vertua Gentile. È legato in tela rossa con placche oro ed è costato tre e cinquanta.
Lo apro e sulla prima pagina leggo anzitutto una data: «Giugno 1895», e poi la dedica: «Nel giorno solenne della Cresima questo piccolo ricordo in pegno d'affetto, t'offrono gli amici tuoi col voto che lo Spirito del Signore ti accompagni in tutte le vicende della tua vita». E sotto infine la firma: «L'amica tua Settimia a nome anche dei suoi genitori».
La Cresima! Facevo la terza elementare in porta Romana colla signora Grange. La nonna Amalia, che era già a Moltrasio colla zia Angelina e l'Erminietta, diede incarico a Milano di regalarmi I Promessi Sposi. Li ho ancora ed è l'unica edizione che leggo e rileggo di tempo in tempo. Se prima di andare a letto ho la testa in tumulto e temo di non poter dormire, mi comunico con Alessandro Manzoni, mi acqueto, mi pacifico con lui. L'edizione di Paolo Carrara (Libreria Editrice di Educazione e di Istruzione) ha impresso in oro sulla copertina a sfondo azzurro-cielo, Lorenzo Tramaglino che butta via i polli indispettito dopo il colloquio col dottor Azzeccagarbugli.
Per la Cresima il mio padrino, lo zio Cecco, mi regalò il primo orologio, una cipollina d'argento remontoir, acquistata dal Franceschi sotto i Portici. Adesso è andata a finire in cucina. Il piccolo orologio ritardava sempre e ritarda anche ora ed è forse per ciò che i pasti non sono mai puntuali. Bisognerebbe - a incitamento - ricorrere al monito immanente che un mio amico pensò di scrivere sulla parete: «Ma come? Sono le sei e mezzo e non è ancora in tavola?!»
Volto un'altra pagina di Quand'ero scolaro. È una testata con due illustrazioni. Disopra c'è Pinetto seduto a un rozzo tavolo col capo nella mano sinistra e il libro aperto davanti; studia, da bravo. Più sotto c'è lo zio in abito quadro che bacia in fronte il nipote reduce dagli esami, serio serio, col pacco dei libri sotto il braccio e la coronetta d'alloro nella mano destra. Quelli eran i tempi in cui gli zii vestivano correttamente di nero, battevano dolcemente sulla spalla ai nipoti e lisciandosi la barba dicevano: «Bravo, sono contento di te». I libri dei ragazzi erano buoni, utili e dilettevoli, i maestri di ginnastica eran uomini con vocioni da basso profondo, alti e robusti e coi baffi brizzolati; le madri, nei loro soliti angoli, agucchiavano mentre le figlie ricamavano silenziose.
Che bella vignetta a colori reca la quarta pagina del libro! Un calessino corre veloce lungo un muretto. Il cielo è sereno e le piante son verdi ancora in quella mattina di primo ottobre! Leggi in basso: «Addio nonna! Addio Pinetto! Buon viaggio!» Il povero ragazzo lascia la campagna per la città, la buona nonna e la Stasia per lo zio lungo secco e allampanato, le scuole elementari per il Ginnasio.
Il caro piccolo mondo ritorna a noi colle sue massime, coi suoi moniti, cogli esempi preclari. Ecco il giardino dello zio in città: «Tappezzato di foglie color della ruggine, le piante ingiallite e brulle fra cui spiccano i pini, gli abeti sempre verdi, immagine degli uomini forti che non si lasciano vincere o abbattere dalle vicissitudini ma resistono imperterriti da uomini, da cristiani confortati dalla fede...» Ecco lo zio che attraversa il corridoio e com'è di fronte all'uscio di Pinetto si ferma, lo apre, piano piano, vede il nipote che studia e...
«Sei costì? - gli dice - lavora... lavora fanciullo mio poiché il lavoro è dovere, è piacere, è conforto...»
Quale sarebbe il commento del mio amico Barella a queste sagge parole? «So ben che l'è minga inscì!»
L'onestà era a base di tutto, a casa e a scuola. C'eran scolari scrupolosi che il giorno dell'esperimento in classe scrivevano al professore lettere come questa:
«Signor professore, la traduzione di questo passo di Cornelio Nepote io ce l'ò stampata in un libro a casa e siccome l'ò studiata per esercizio e la so a memoria Ella capisce, Egregio signor Professore, che è quindi mio dovere ritirarmi dalla prova». Quando io frequentavo il Liceo già spirava un'altra aria. Delegato a suggerire in classe era il compagno Gian Luigi Dones che oggi è un pezzo grosso della Cassa di Risparmio e allora, nell'Istituto di piazza San Giovanni in Conca, era il primo della classe. Senz'esser proprio l'ultimo, io invece ero uno di quelli abbandonati al loro destino nei banchi in fondo. Un giorno ero «fuori», mi ricordo, interrogato dal professor Vasconi che nel discorso pronunciò due o tre volte la parola «pino», si parlava insomma di un pino. Ma «pino» in greco vuol dire «bevo» e Dones, distratto (copiava musica mi pare in quel momento) nel sentir quel «pino... pino» continuamente ripetuto, credette che il professore parlasse greco e che io avessi bisogno della traduzione e me la suggerì piano, piano: «Bevo!... bevo!»
E io: «Sì, bevo!»
Quel buon uomo del professor Vasconi alzò gli occhi, mi guardò stupefatto e «Bevo?»
E io: «Sì, bevo!»
«Ma cosa vuol bere lei?!»
... per entrare nelle grazie del professor Vasconi bastava assecondare il suo nobile impulso irredentista e piangere con lui sulla sorte del Quarnaro, si poteva così - come Pirami - ottenere il permesso di saltar le lezioni del pomeriggio per andarsene alle corse a San Siro e in Carnevale recarsi - come me - alla Fiera di porta Genova, a vedere i primi cinematografi.