193933Ore di città/521988Delio Tessa

Galleria di Benefattori

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Il Bene - Natale 1888 - è il padre di tutti gli altri che sono venuti dopo di lui, giornaletti pii, periodici di istituzioni benefiche. Da noi ne ho contati persin quindici, ora sono un po' meno ma ce n'è sempre: abbiamo, per esempio, la Crociata Missionaria, i Piccoli Missionari, L'Eco dell'Africa, il Bollettino parrocchiale, il Patronato di Sant'Antonio, la Buona Parola, Come d'autunno, Charitas...

La nostra Margherita li definiva tutti con un nome unico e generico: «I Beni» li chiamava. «Gh'è chi i Beni...» diceva portandocene su tre o quattro alla volta dalla portineria.

Da cinquant'anni la testata del primo di essi in ordine di tempo compare in casa nostra. È una testata placida, che riposa gli occhi; su un cartiglio orizzontalmente steso si legge quella parola che senza incitarti afferma: «Il Bene». Anche il modo come è stampata non urta; è in caratteri discreti, leggeri, quasi filiformi. A sinistra c'è un angelo seduto con le ali spiegate e che tien in grembo un fanciullo; ai piedi ha un altro ragazzetto in poveri panni che addita un libro aperto; sulla pagina a destra leggi la parola «Prevenire», su quella sinistra c'è lo stemma della città di Milano; come sfondo ammiri il coperto del Duomo e la nostra Madonnina; sotto il cartiglio e quasi protetto dal titolo della rivista ci sono tre giovinetti che lavorano, uno alla macchina tipografica, l'altro alla composizione e il terzo a portar a spalla pacchi di fogli stampati.

Così, grosso modo, la testata del Bene mi ricorda quell'altra del Guerino entrambi periodici dell'Ottocento milanese, che andavano nelle case ammodo dei benpensanti e che venivan letti dalla mamma ai ragazzi sotto la lucerna a petrolio e dal babbo seduto in poltrona...

«Ah!... Ah!... t'ee veduu la caricatura del D'Annunzi! 'In forma di port'uovo' gh'è sott...»... e difatti si vedeva il poeta impeccabilmente in frac (port'uovo) che alla ribalta, inchinandosi, offriva al pubblico la sua bella testa pelata (uovo).

E la mamma al tavolo.

«C'è sul Bene che i figli della Provvidenza per San Carlo dànno il solito spettacolo».

«Ci andremo, vero, ci andremo?», chiedevano in coro i ragazzi.

«Si vedrà, si vedrà, se non succederà niente, se non sarà una sera d'acqua, se avrete fatto i vostri compiti...» Finivano poi coll'andarci a piedi o in omnibus secondo le distanze. Credo che a porta Lodovica e a San Vittore, dove c'era e c'è tuttora l'Istituto, abbiano persistito per qualche anno gli ultimi due omnibus in piena epoca di tram a cavalli e quando già la stazione Nord e l'Arco della Pace si raggiungevano con due bei tram elettrici rossi.

Quei due omnibus lunghi e bassi come casse da morto, piantati su alte ruote come su dei trampoli, facevano sosta in piazza del Duomo davanti ai Portici Meridionali e posti fuori servizio li usarono ancora un po' a condurre a casa le ballerine della Scala dopo lo spettacolo e in qualità di carrozzone carcerario.

Don Carlo San Martino durante gli intervalli girava per la sala fregandosi le mani con un fare tra il serio e il faceto. So che gli davan sui nervi i ragazzi che mangiavano anche perché temeva che gli sporcassero per terra: «Lor fan semper andà la bocca - diceva: - nanca a teater poden stà!... Mangen forse i me fioeu?» E li additava ad esempio di sopra, in balconata.

Nella serata di San Carlo e in quelle poche successive di carnevale al salone dell'Istituto dei Figli della Provvidenza ne scaricavano della gente gli omnibus e poi i tram!

In quelle sedie di paglietta, che ricordavano alla lontana le sedie dei confessionali, si disponevano con sorrisetti di approvazione soddisfatta i Signori Benefattori, i parenti dei Benefattori, e gli amici dei Benefattori; non mancavano nemmeno le vecchie donne di servizio che si divertivano un mondo. Le belle barbe autorevoli, le cappottine viola allacciate sotto il mento, oscillavano di compiacenza al fremebondo preludio dell'orchestra mandolinistica e all'opera comica, alla Pianella perduta nella neve o a Crispino e la Comare.

L'ultimo numero del Bene - Natale 1938 - distribuito pel cinquantennio del Pio Istituto, contiene ben sedici pagine di ritratti. Sono gli oblatori dei Figli della Provvidenza dall'88 in poi. Li guardo, li osservo. Quanti! Otto per pagina! Mi par quasi di conoscerli tutti: sono oneste facce da via Gorani, da piazzetta San Sisto, da via Cappuccio, da Sant'Andrea, da Rugabella... Nessuno più vive oggi di costoro, li penso tumulati nelle lor Cappelle di famiglia al Monumentale o giù nei colombari vecchi e qualcuno pure - morto da poco - a Musocco.

Mi domando dove ho incontrato la signora Luigia; forse in casa Candiani in qualche giorno di visita quando ancora abitavano in via Bigli? La signora Luigia è seduta in modo che il dorso della mano sinistra mostra l'anulare con la vera. Ha l'aria di una buona madre di famiglia, fin troppo semplice di abiti e di modi per la sua condizione sociale. Non so niente di lei, proprio niente né di lei né degli altri, ma mi piace, fantasticando, crear vite dal nulla.

È così che il conte Carlo, bianco e scarno che par quasi l'abbian tirato per la barbetta rada, me lo immagino nei suoi ultimi tossicolosi inverni curvo davanti al camino con un plaid sulle gambe.

La signora Carolina che buona zietta dev'essere stata! Forse non ha avuto figli ma nipoti, tanti nipoti! Ti guarda dal sotto in su con affettuosa timidezza.

La contessina Carlotta dai grandi occhi stupiti sotto il mastodontico cappello a piume, chiusa nella camicetta fino al mento, ingenua e riservatissima, direi d'averla ammirata sul ponte superiore del Plinio: romantica fanciulla! Contemplava in una mattina di maggio gli alti dossi erbosi, le rive fiorite così quiete, così in pace in quell'ora! Se chiudo gli occhi, vedo... vedo... una piccola croce nereggiare in terza pagina su un Corriere ingiallito dagli anni. È l'annuncio mortuario per la contessina Carlotta rapita anzitempo all'affetto dei suoi. Il funerale della fanciulla per i sentieri sassosi, fra i bianchi muretti, su... su... dalla sua villa al lago sino alla chiesa del villaggio è come il mortorio di un bimbo. Cantano i veli delle Figlie di Maria; cantano i grembiulini dell'asilo, e la bara sale, sale veramente, ascende verso l'azzurro del cielo!...

La barba fluente del cavalier Rodolfo che gli scende sin quasi a mezzo gilè e gli rendeva inutile l'uso della cravatta; i baffi a cespuglio che tanto nascondono la bocca da chiederci: «Come mangiava costui?»; lo sguardo assorto, la fronte pensosa, te lo indicano uomo serio, padre severo che ai figli conviventi, anche se maggiorenni, rifiutava le chiavi della porta. Lavoratore indefesso, fra maturità e vecchiezza, si teneva stretto ai tre «C» consolatori: Casa, Chiesa, Cimitero.

Mia cugina Erminia, nella posa-«salon» che le fece a titolo di réclame un fotografo in corso Venezia, ha il viso già un po' stanco e sfiduciato degli anni suoi che venivano accumulandosi. Dall'appartamento di via Piatti a Milano alla piazzetta di San Rocco a Moltrasio, estate e inverno, era sempre la solita vicenda...

Il crocefisso di Mamma Emilia che le cade, le sta sul petto, le è scudo ed arma. La fotografia te la presenta in piedi, in abito nero, com'era sempre e con quell'unico ornamento del crocefisso. Seduti davanti a lei, su una seggiolina e su un panchettino basso, ci sono due bambinette in vestina bianca. Sorridono, sicure; Mamma Emilia, senza parere, le osserva, vigilante. Il piccolo gruppo ha il valore di un simbolo per il compito assiduo che Emilia Pirinoli assunse nell'Istituto dal suo ingresso sino alla morte: operare, vigilare, pregare. Mi accompagnava un giorno la «Signora» in visita per i cortili, per le aule e per le scale con quel suo passo deciso e leggero e a terreno ci soffermammo nella chiesina così poeticamente affrescata nel coro. Rappresentano, le pitture, un portico ricorrente aperto su un chiaro paesaggio.

A Emilia Pirinoli un po' stupita e un po' contrariata recitai La mort des pauvres di Baudelaire, che nel suo ultimo verso sembra appunto illustrare quegli affreschi. «La mort - dice Baudelaire - c'est le portique ouvert sur les cieux inconnus». Mamma Emilia mi guardava dubitosa durante la dizione, mal prevenuta contro il poeta che chiamano «maledetto». Non voleva arrendersi... ma infine, a me che glielo esaltavo nel mio fervore, quasi esitando, rispose: «Rileggerò Baudelaire». Era così: non ammetteva per sé barriere né all'intelletto, né al cuore.