193940Ore di città/591988Delio Tessa

Primavera

edit

Tornerò al lago Malaspina.

È uno specchio d'acqua fra i campi, non lontano dall'Idroscalo. Ci si va per una strada alberata, per una di quelle rozze rotabili che servivano un tempo ai carri agricoli unendo cascinale a cascinale.

Ci tornerò in un giorno feriale, possibilmente il mattino quando non c'è nessuno, proprio nessuno. Il laghetto sarà come ieri limpidissimo e freddo, ai bordi di un cupo verde, variato di bianco e d'azzurro nella zona mediana. Taci, perché invita al silenzio.

Nessun rivo lo alimenta ma pure acque di fontanili. Di là, in lunga fila esili ed alti fusti lo delimitano. Hanno un ciuffo verde in cima. Pioppi? Dove ho visto di queste piante?... ah, sì... a Graffignana, erano a sfondo di quel piccolo cimitero di campagna. Dieci piante come dieci avemarie.

Seduto su una proda erbosa, se mi allento, se mi abbandono a poco a poco mi addormento.

Giorni estatici...

Lo stupore, l'attesa ch'è nell'aria mi prende, m'invade... la sera alle nove di già ho sonno... mi desto tardi il mattino. Potessi cogliere - penso - quel punto magico che divide il sonno dalla veglia, ora lo sento venire ma so che sulla linea del tempo non è fisso, va e viene. Se le immagini del mondo si sciolgono, svaniscono, eccolo... è qui... ma no, si allontana; mi sembra che ci dovrei entrare sveglio e entrando vedere... mi capita invece che già mi trovo di là come se qualcuno mi ci portasse a volo sulle braccia e di là è tutt'altra cosa. È un misterioso trapasso; se lo cogliessi mi direbbe qualcosa di quell'altro trapasso. Ma non lo colgo, nessuno l'ha mai colto, perché?

Sono questi i giorni delle grandi nostalgie.

Di che? Di una vita migliore, diversa.

In uno studio professionale qualsiasi un uomo anziano e già calvo attende di essere ricevuto per poter conferire sui suoi negozi e intanto inganna l'attesa parlando con una giovinetta, l'impiegata d'ufficio. Fa delle confidenze, si lascia andare e far dei progetti, delle promesse.

Nel suo dialetto novarese dice: «...piuma el treno, fuma on viagg...» Anch'egli il signore anziano, ricco e rispettabile con moglie e figli, vorrebbe liberarsi di qualche cosa, vorrebbe andare, non sa dove né con chi, ma andare... Propone di dividere colla sua intelocutrice l'acqua di Colonia che ha comperato per sua moglie ma infine non la divide. La giovinetta sorride benevolmente. Non piglierà nessun treno, non farà nessun viaggio. Tra qualche istante, nell'altra stanza, si accalorerà discutendo dei suoi affari, esponendo il suo caso.

Nel medesimo studio in un altro giorno c'è un documento difficile da registrare. L'avvocato non si decide a andar lui, teme l'oculatissimo ricevitore, si affida così al potere ipnotico del pomeriggio primaverile, confida nella grazia e nel sorriso della sua :collaboratrice e la manda:

a placar l'umor sinistro
dell'Ufficio del Registro.

Il documento è esaminato con indulgente giustizia scevra da acredine fiscale e infine dal minuscolo sportellino esce una acidula vocetta a reclamare:

«Dieci e dieci».

Poi, in un andito buio, sull'impiantito grezzo, fra gli effluvi delle vaganti latrine, l'ometto del Registro non può tenersi dal proporre alla signorina una gita, una strana gita in biroccio a Pavia... s'è ricordato forse di Ferravilla nel Minestron:

Vieni o bella
Vieni a Pavia
ivi d'amor vivrem!

A Pavia! Come si può vivere d'amore a Pavia? E andarci apposta? Veramente qui al laghetto Malaspina ci siamo un po' sulla strada. Queste rogge, questi fossi vengono e vanno fra l'Adda e il Ticino. E la pingue campagna del basso Milanese tanto amata dal Porta... i fil di piant... i sentirolitt per i praa... solitari, patetich, delizios e l'altissima quiete e la profonda melanconia dei poeti! Una rozza barca, un quattr'assi si distacca dalla riva ed è ferma in mezzo al lago. Uno pesca. Le due case sull'altra sponda non dan segno di vita. Tacciono bianche di sole. Vorrei come Rity fare un bucherellino per terra, stendermi bocconi e ficcare la punta del naso in quel bucherellino... e odorare... odorare lungamente: «Cosa senti?» «Sento... sento un effluvio caldo, un tepore, un profumo, un sapore dolce come di latte...» La terra. La primavera che torna! le linfe remote che salgono... che salgono... Quante volte è stata cantata la primavera dagli uomini? Sempre che appare la cantano! «Invano migliaia e migliaia di persone ammucchiate in un piccolo spazio si sforzano a isterilire la terra...» Chi parla così? È Tolstoi. Vi ricordate della prima pagina di Resurrezione? Non è una lirica in prosa, è qualche cosa di più, è un inno, è Tolstoi musicista, ma sì! è un preludio a velario chiuso... «... invano soffocano il suolo sotto le pietre, perché nulla possa germogliare, invano impregnano l'aria di petrolio e di bitume, invano recidono gli alberi, ma la primavera, persino nella città, è pur sempre la primavera!... «... gli uomini solo non cessano dall'ingannare e tormentare se stessi e gli altri e non la bellezza divina dell'universo, creato per formare la gioia dei viventi col disporli tutti alla pace, all'unione, all'amore, non questo stimano e trovano importante e sacro, ma apprezzano ciò che essi hanno immaginato per soverchiarsi a vicenda». Per me, povero diavolo, le citazioni e i precetti in competente bollo che son costretto a stilare senza mia colpa non sono né importanti né sacri, ma solo - ahimè - necessari!

E se non è mia la colpa, di chi è dunque?

La domanda che non ha risposta mi pesa sul cuore come una pietra.