Ore di città/61  (1988) 
by Delio Tessa
Ore di città edizione postuma

Brutte fotografie di un bel mondo edit

I. edit

Sono vissuto troppo.

Me ne accorgo contemplando queste fotografie. Mi sono care, le amo, ed è un gran brutto segno. Non riesco a distaccarmi dai morti, non so vivere più.

Sono come quella mamma che ha la tomba della figliola a Musocco a lato di quella di mia cugina. È disposta e tenuta con una cura così minuziosa che opprime, che dà pena. Ha un giardinetto in miniatura che sembra il fac-simile di un altro. Ha una casetta di latta coi lumini accesi dentro. La povera signora ci viene tutti i giorni, apre un pliant, si siede, e per ore ed ore legge... lavora... E i suoi, intanto, a casa che fanno?...

... La nonna Amalia, la zia Angelina e l'Erminietta son qui, in gruppo; li vedi? tre morti! Io c'ero, allora, ma non mi ricordo di quando è stata fatta questa fotografia sulla piazzetta di Moltrasio. Deve esser press'a poco dell'epoca di quell'altra che mi raffigura colla zazzeretta alla Raffaello in gonnellino come una bimba. Guarda la nonna. È accigliata. Non riuscivano mai a fotografarla. Che l'abbiano colta di sorpresa? Non era tenera la nonna né con le figlie, né coi nipoti. Perdeva subito la pazienza. Anche a tavola masticava un po' e poi girava il piatto al suo vicino: «Te! va innanz ti!» Seria, non perdeva d'occhio la tavolata. I nipoti facevan gran festa a quello che c'era e lei, di malumore: «Mangée mangée... che quand ghe n'è pù, creppa l'àsen e quel che gh'è su!» Due figlie eran vedove in casa, l'altra - mia madre - era sposata fuori. Qualche volta si lagnava di mio papà uomo taciturno. E la nonna, asciutta:

«El parla no perchè el gh'à niente de dì».
Io poi ero causa di continui rabbuffi:
«El tò fioeu el vegnarà su ona fescia!»
In milanese «ona fescia» è un fannullone, un perdigiorno, un buono a nulla. Come a tutti i Faverio la memoria era di ferro ma le gambe facevano giacomo-giacomo.
«Come la va, sciora Amalia - le chiedevano - semm in gamba?»
«Semm in gamber!» rispondeva.
Ma ai suoi tempi, che donna!
Era nata nel venti e, nel Marzo del '48, abitava in via Larga in una di quelle casette in faccia a Palazzo Reale. Parlava sovente delle Cinque Giornate. I tedeschi erano appostati di contro:
«Sara, se no mi tira!»
Buona gente, avvisavano per lo meno!
<poem>
La nonna Amalia, la zia Angelina e l'Erminietta sulla piazzetta di Moltrasio.

Trovo scritto: 28 agosto 1902 - Eseguita dal Dott. Riccardo Monforte alle cascate di Moltrasio! Forse qualcuno si riconoscerà ancora dopo tanti anni.

La vedova andò a stare sul ponte di Porta Venezia. Usciva colle bambine e non di rado in S. Andrea o in S. Vittore Quaranta Martiri si incontrava con Alessandro Manzoni che da Piazza Belgioioso, lemme lemme, andava giù verso i Boschetti per la sua passeggiata pomeridiana: «Clara, Angelina, su, presto andate a baciare la mano a Don Alessandro!»

Omaggio ai Poeti! Chi si curerebbe di loro oggidì se pur vi fossero?

A Moltrasio era amica di tutti. Vi si recava in Aprile e non tornava in città che a Novembre per i morti. Soltanto ai primi di Luglio faceva una punta a Milano di pochi giorni per tagliare le cedole della rendita.

Fu il ventidue di Giugno del novantatre, verso le undici, stava per mettersi a tavola. Portò la mano alla tempia:
«Ah... Ah... che picch!» Esclamò e poi tacque e non parlò più.

Morì il giorno dopo.

Un vecchio e nobile signore che abitava una sua grande villa a Pizzo veniva, accompagnato dal suo domestico, ogni mattina, in battello alla Piazzetta di S. Rocco. Da basso, al caffè, ordinava un vin bianco e si intratteneva con la nonna in lunghi e piacevoli discorsi.

Venne anche quel giorno e non la vide. Guardò su alle sue finestre. Chiese a qualcuno:
«Dove l'è la scuffietta?»
Gli sussurrarono qualcosa all'orecchio.
Il vecchio signore riprese il cappello, si alzò, e... «Andem, Carlo!», tornò a casa.
E ora, dopo la nonna, osserva la zia. È tranquilla, è serena, come fu sempre. Negli anni difficili, quando gli altri si crucciavano per lei: «E adess?... come te faree?» essa opponeva la sua candida fiducia: «On quaj sant ghe provvedarà».

Le mani riposano in grembo e tra l'indice e il pollice della sinistra c'è un fiore. Un vasetto di fiori, è pure sulla panca di pietra fra le due donne. La testa è leggermente reclinata sulla spalla e anche l'Erminietta in piedi ha lo stesso atteggiamento del capo, chino un poco da lato.

Usavano così allora le fanciulle e le signore come se fossero state in chiesa a pregare.
In fotografia ben di rado ridevano. Eppure la vita era così placida e senza pensieri. Mi sai dire perché oggi invece coll'acqua alla gola le ragazze in foto, tutte le ragazze e i gagà hanno stampato quel riso scemo sulle labbra?
Neanche i giorni di Caporetto, quegli angosciosi giorni fra i Santi e i Morti del '17 riuscirono a turbarla.
Andavamo sempre da lei verso le cinque.

In uno di quei pomeriggi in via Monte Napoleone vedo un signore dall'altra parte della strada che mi fa dei cenni. Chi è? Attraverso. L'è el zio Bellom, non mio, ma di un mio amico. Senza salutarmi, pianissimo, mi chiede:
«Vegnen?»
«Chii?»
«Lor!»
«Chii, lor?»
«I Todesch!»
«Ma no! cosa el dis su!!»
Però non riesco a rassicurarlo. Capisco che andrà in cerca di qualcun altro per fargli la stessa domanda.
Ma la zia Angelina non ci pensa nemmeno. Le portiamo le notizie che non son stampate ma passano di bocca in bocca. Commenta:

«In temp de guerra, pussee ball che terra».

«Ma i giornali? ma il «comunicato» di oggi? quello lì non lo si può smentire!»
È indecisa, ci pensa e poi conclude:

«Un quaj sant ghe provvedarà!»
Un santo ci fu veramente per noi, anzi, io direi che furono tutti i santi di quel tragico primo di Novembre e tutti i morti del due; gli uni pregavano, gli altri aiutarono e fummo salvi!

La zia Angelina era allora angustiata per i passerini della terrazza. La mattina metteva giù il pane per loro e i topi glie lo mangiavano: «Baloss! Baloss de ratt!»

Si discuteva animatamente se si dovesse prenderli ricorrendo alla carta col vischio:
«E poeu, se ghe va su i passaritt!?»
Le stanzette della zia Angelina in Monte Napoleone al 16 erano un'oasi di pace.

Il parentado e gli amici ci si davano tacito convegno, qualcuno veniva per riposare un'oretta, i più per trovarsi fra loro. Mio padre taceva sempre. Se glielo facevano osservare, rispondeva:
«Se tucc parlen, chi l'è che scolta!»
A un certo punto la zia dava la levata:
«E adess, andee che mi me inlocchissi!»
La rivedo ancora nel Maggio del '25 per un altro commiato, l'ultimo. Parlò fin che poté.
La sua vita finì con la parola. Non turbata né commossa suggerì i nominativi e gli indirizzi delle persone a cui si dovevano inviare le partecipazioni della sua morte. Sul letto vicino volle disposti in bell'ordine gli indumenti che avrebbero servito per lei tra poco...
... e poi, in altro giorno, mi vedo al Cimitero Monumentale; un uomo con una lunga pertica di ferro sulle spalle mi accompagna verso i rialzi di levante. Mi chiede:

«So marì, quand l'è che l'è staa miss giò?»
«Mezz secol fà, lì adree...»
«El ved? donca, per mettela de sora, besogna prima savè se gh'è giò el tombin...»
... Un colpo... due colpi... tre colpi... la lunga pertica di ferro s'affonda, s'affonda nel terreno!
Pum!

«El gh'è!»
Vien di sotterra quel tonfo cupo e profondo del ferro che batte la pietra.

L'uomo del Cimitero vuole accertarsene meglio, e picchia, picchia ancora...
Pum! Pum!
«Chi l'è?»
Questa volta mi pare che qualcuno a quei colpi si desti laggiù.
È lo zio Tullio che alza la testa, si scuote la polvere, si leva dal sonno di cinquant'anni e chiede: chi è?
Che è rimasto di lui? Del giovane ardente dal maschio viso? Il giorno delle nozze - ricordi? - nella foga d'aprir la portiera della carrozza della sposa ti rimase nelle mani la maniglia!
Oggi è la tua vedova che ritorna, che ti raggiunge e chiede ospitalità nella tua tomba.
La nostra Erminietta, la figlia della zia Angelina, nella vecchia fotografia ha per aureola il suo lago, i suoi monti! L'insenatura della Pliniana... il Palanzone, la Villa Vergani e le pendici del Pizzo di Torno... Il lago, come sempre allora, è deserto. Passavano i lenti comballi condotti dal tivano il mattino verso Como, le vele gonfie di breva al pomeriggio. La zia Angelina in quell'ora ferma della grande calura apriva un po' una finestra e guardava giù. Nessuno.
Sui platani e sull'olmo le onde alterne delle cicale. Silenzio. Nel cielo quasi bianco, cumuli di nuvole bianche. Chiudeva subito.
Solo verso le cinque scendevano in piazzetta. Cominciava il montivo, si respirava! Si sedevano così su una panchina di pietra come son qui ritratte in fotografia.
Dopo pranzo l'Erminietta colle sue amiche - una schiera di fanciulle - andava passeggiando o di qui sulla strada di Urio o di là verso Cernobbio...
«Cantiamo?»
«Sì, cantiamo!»
<poem>
E l'Erminietta cantava:
Dai capelli color del vin bianco
pettinati all'onde del mar...
e poi tutti in coro:
Bella se tu sapessi il ben ch'io ti voglio
non me lo negheresti
il bacio d'amor!

Dal lago, da una qualche lancia che seguiva la scia della luna, rispondeva un'altra canzone... ... la gondola nera fuggiva... fuggiva. Romantica luna! Nessuna fanciulla sogna più al tuo pallido raggio, né s'affaccia a una finestra contemplandoti! La Realtà! il realismo! La vita realistica! La gente non apprezza se non la luce del sole che illumina il regno di ciò che si vede e che si tocca! Mia cugina Erminietta non conobbe altra realtà se non le sue faccende domestiche e il suo lavoro d'uncinetto che negli ultimi anni l'aiutò a tirare innanzi quale modesta professione. Per il resto la sua, fu una vita di romantici sogni dominata da un segreto del cuore. Essa lo custodì lungamente finché non si spense. Allora l'Erminietta morì e nacque l'Erminia la signorina anziana, un po' fredda, estranea al mondo, tutta presa fra chiesa e cimitero.

Quel suo album di ricordi illustrato pagina per pagina da cascatelle allegre, da fiori di campo su lunghi steli, da poggi erbosi e da lei scritto in inchiostro d'anilina violetto cangiante, quel suo album di memorie quando alla nuova luce le si rivelarono inutili quisquilie, essa lo distrusse.

Una mattina vestendosi si scoprì una ghiandoletta al seno. Non doleva. Andava e veniva. Che strano! Dopo qualche mese ne parlò a qualcuno, però non voleva farsi vedere; a che avrebbe giovato? La convinsero infine.

Il vecchio medico di famiglia non era per l'operazione: «Se l'è quel che se dis cossa serva? se l'è minga, la po sta inscì». Era, purtroppo, e tutto fu inutile.

La nostra Luisa quando tornammo dal Cimitero concluse:

«L'era madura per el Paradis».

Gita domenicale: sul «Plinio» ad Argegno.

A Moltrasio la nonna teneva in fitto un appartamentino di cinque locali sotto al Caffè della Posta. Quando morì le sue tre figlie continuarono nella locazione e si tirò avanti così, per un pezzo anche nel dopoguerra, finché la vita vi divenne impossibile per colpa di quelle maledette automobili. In quelle cinque stanzette ci si dormiva sovente in sette. La zia Angelina non cedeva mai la sua camera ai cognati per nessun motivo: «Perchè dopo - diceva - gh'è denter l'odor de omm!» Soltanto i nipoti - purché piccoli - vi erano accolti. Se chiedevano una storiella, prima di addormentarsi, la zia ne aveva in serbo una per tutti; diceva:

Volete sentire
la bella storiella
dell'uomo budella?
Sì, la volevano sentire. Ma la zia non faceva che ripetere:
Volete sentire
la bella storiella
dell'uomo budella?
E se ancora insistevano, il ritornello riprendeva ma come una nenia, come una ninna-nanna al bambino che si andava addormentando:
Volete sentire
la bella storiella
dell'uomo budella?
Sono rimasto così. Chiedo sempre e invano. Mi addormenterò l'ultima volta e nessuno mi avrà raccontato
la bella storiella
dell'uomo budella?

Moltrasio! Mio padre, pover'uomo, non ci si poteva vedere. Ci veniva ogni morte di vescovo e dopo una serie di appelli epistolari. Arrivava col solito panettone del «Roma », in magiostrina, sudato e carico di pacchi. E che accoglienza si ebbe una volta!

Sul nostro pianerottolo, uscio a uscio, abitava la famiglia Oberti. Coi genitori c'erano quattro figli, tre grandi e uno piccolo. Quelli grandi si divertivano un mondo a far ammattire il fratellino. Succedeva un pandemonio. Il bambino inveiva a parolacce che gli avevano fatto imparare apposta e finiva sempre a casa busca! Quel giorno si era alle solite. Mio padre saliva adagio adagio il calvario delle scale ingombro dei suoi pacchi col codazzo dei parenti ch'erano andati a incontrarlo all'imbarcadero. Il piccolo Enzo esce in quel punto come un bolide dal suo uscio per rifugiarsi a casa nostra e sul pianerottolo si imbatte col sig. Senio e sul malcapitato scarica la serqua dei suoi improperi. «Brutta bestia, porca carogna, ti, propri ti!»

Mio padre si volta alla fila delle donne e conclude:

«El va minga a côr ma el va a rivà a temp!» In casa, ben inteso, non c'è posto. Bisogna dormire in sala sull'ottomana. Una mattina di sole. Chi sale? Chi scende? Nessuno.

Dormire? È una parola! Per salvarsi dalle zanzare si viveva nel fumo degli zampironi per cinque o sei ore ma non si riusciva a chiudere occhio lo stesso perché da basso al Caffè vociavano e ballavano sin dopo le due. Quando il Caffè si chiudeva, le zanzare si destavano dalla narcosi e cominciavano a banchettare. Verso l'alba però eran sazie e il povero Cristo sperava di poter pisolare. Macché! «Dilin... dilen... dilin... dilen...» la campanella di S. Rocco ti cadeva sulla testa chiamando i fedeli per la prima messa. Vedo ancora mio padre bell'e vestito col suo bastone di malacca quando tutti gli altri sono ancora a letto e lo sento esclamare, deciso: «Mi voo!...»

E andava... C'è ancora al sabato la famosa corsa di marì? Ricordo una vignetta del Cagnoni sul «Guerino». I borghesi panciuti e baffuti occupavano beatamente la prima e la seconda. In prima leggevano la «Perseveranza», in seconda il «Corriere», qualcuno il «Secolo». C'erano poi due o tre vagoni bestiami. Dagli sfiatatoi in alto uscivano le braccia ossute e le facce scarne dei consunti travett che per mantenere la mogliettina in campagna facevano vite da ladri in città. Sui vagoni c'era scritto in gesso: «Riparto mariti fedeli». E l'onda del «Plinio»? La corsa di marì mi richiama alla memoria la numerosa famiglia dei battelli della Lariana. Andavano dal «Forza» al «Plinio»; dalla vecchia, tozza e nera pirobarca ridotta allo stato di rimorchiatore al bianco, veloce e lussuoso piroscafo. Faceva nella sua corsa un'onda maestosa e spumeggiante che dava un brivido di letizia alle fanciulle. Si vedeva il candido battello fendere il lago, trionfante, e le lance, le jole, i joujou avvicinarsi cauti alla sua rotta ed entrare coraggiosamente nella sua bianca scia. Si vedeva da lungi lo scompiglio degli ombrellini bianchi e rossi, delle camicette multicolori investite dai frangenti, si sentiva qualche strillo gioioso da quelle lance, poi, tutto si calmava, tornava in pace sullo specchio verde azzurro delle acque. Le onde del «Plinio» si allontanavano larghe e lente a ventaglio verso le placide rive... Fra i villeggianti si favoleggiava di qualche lancetta troppo imprudente che si era capovolta nell'impresa del prender l'onda e si disse pure che la Lariana aveva finito col cambiar le pale delle ruote al suo «Plinio» per togliere di mezzo un pericolo pubblico. Tempo beato! Le domeniche, al mattino, seduti sul muricciolo della piazzetta in attesa della messa delle undici, capitava spesso di vedere a mezzo il lago l'«Elvezia» o il «Lombardia» i grandi battelli salon che filavano verso Argegno, verso Bellagio coi milanesi in comitiva.

Le bande raccolte in punta, empivano il primo bacino dei loro festosi: ratascium! ratascium! ratascium! Di ritorno da una di queste gite una nostra amica, la signora Moltalbetti, forse per aver preso troppo sole, perse l'equilibrio e finì, giù per una botola, nel salone delle macchine! Perché non ricordare i nomi dei vecchi piroscafi? C'erano i due gemelli: l'«Unione» e l'«Italia» e cioè l'unione del popolo italiano che aveva fatto l'Italia. Poi venne il «Milano», omaggio alla Metropoli Lombarda e alla sua borghesia danarosa che aveva seminato di villette colla torretta le rive del Lario.

Io nel '91. Tutti questi battelli la sera della domenica riportavano a Como l'ondata dei mariti. Dalle 20 alle 22 i pontili eran neri di gente. Si vedevano i partenti con tre o quattro bambini attaccati ai calzoni, alle giacchette. La moglie a braccetto e le cognate intorno. Ai pontili, nella notte, lucevano due fanali a petrolio, uno bianco e uno rosso. Ma non bastava. C'era anche una torcia a vento che agitavano a richiamo del battello imminente all'approdo. Poi la celavano dietro un pilone del ponte perché non abbacinasse colla sua luce troppo viva il capitano che stava ordinando la manovra d'attracco: «Ciao neh! Regòrdes della lettera». (C'era sempre una lettera da impostare a Milano) «...e saluda la zia... e scriv, ona quaj volta!» Abbracci, baci, fazzoletti che sventolavano e il lume rosso a poppa del battello che si rifletteva tremolo nell'acqua buia... Le signore e le signorine un po' tristi per tutti quegli addii tornavano passo passo verso casa, raggiungevano i loro appartamenti d'affitto al Caramazza, a San Rocco, alla Gesa, a Luscisin...

... I bambini tacevano, poi avevano sete e l'Erminietta dava loro da bere, alla prima pompetta della Vesporina nella sua conchiglia di madreperla che teneva sempre appesa alla cintola con una lunga catena d'argento.

II. edit

Sempre a quest'ora c'è uno che suona il violino. Non suona veramente, divaga, gorgheggia sulle corde come qui gli uccelletti del bosco. Calando la sera, a uno a uno tacciono e lui solo rimane. Modula blandamente. Imbruna. A quel filo sonoro sembra sospeso il giorno; se lo spezzi, cade... È caduto! Nell'ombra che s'è fatta, un altro violino riprende a modulare... Comincio a vedere... ... Una scala buia sale per una, due, tre... otto rampe all'appartamento dello zio. La portineria è dopo la seconda rampa. Le stanze sono cinque, tutte in fila, guardano verso Palazzo Marino e verso Piazza S. Fedele. Non hanno finestre ma delle mezze lunette a terra. Lo zio Cecco andava su e giù dallo studio alla casa per una scaletta interna a chiocciola. Qualche volta, dopo pranzo, toglieva il violino dalla custodia e si metteva a suonare «per fà ballà la tosa». La Livietta alzava un po' la vestina prendendola ai lembi tra l'indice e il pollice delle due manine e ballava fra il tavolo e la parete. Notti di neve nella vecchia città da Natale a Capodanno! I brumisti in piazza, a cassetta, attabarrati, erano bianche statue e Alessandro Manzoni pure sul suo piedestallo di marmo col robone bianco indosso. Se lo zio Cecco si trovava un lapis in mano subito disegnava; pupazzettava tutto. Quel ragazzetto in blusa e in maglietta a righe che va a passeggio con una signora sono io e sul cappellino alla marinara c'è scritto: «Dandolo». Altre volte lo zio poneva degli indovinelli grafici: «Te see bon de famm giò con duu segn on brumm che l'è andaa a finì in d'on foss?» Con due segni? Com'era possibile? Nessuno ci riusciva. Allora lo zio Cecco prendeva la matita e faceva così:

I ragazzi non capivano e lui spiegava: «Questa chi - la linea orizzontale - l'è la riva del foss e quell'altra dessora l'è la frusta, la frusta del brumista; el rest poeu l'è andaa sotta!» La neve di fuori turbinava gioiosamente e i ragazzi avevano una gran voglia di andarsela a prendere... Sui libri di strenne natalizie c'erano le vignette a colori dedicate alle quattro stagioni; c'era l'Inverno col ruscello gelato e le piante ischeletrite, la neve sul davanzale di una finestra e il passerino che veniva lì a beccar le briciole di pane e al di là dei vetri il visetto di un bimbo.

Allegra era la neve per quei pochi che stavano al caldo. A piè di pagina, leggevi:

del camin sotto la cappa
scappa nonno, scappa, scappa!
ma poi, del candido manto, il poeta bonario lamentava:
per te piange il povero!

Il povero! Si diceva in quei tempi «il povero» come nei secoli scorsi si sarebbe detto «lo schiavo». La povertà e la ricchezza erano due stati immobili, non comunicavano fra loro se non attraverso l'elemosina. Chi nasceva indigente, moriva indigente, salire era quasi impossibile. Per il popolo era già un godimento l'assistere agli svaghi dei ricchi. Per via Manzoni, per via Giuseppe Verdi, per Santa Margherita, magari coi piedi in umido o l'ombrello aperto la notte del venerdì grasso la gente assisteva alla sfilata delle carrozze che portavano i signori al gran veglione in Teater. Cosa vedevano? Niente! Le groppe fumanti dei cavalli e le mantelline di pelo dei cocchieri. Di sopra c'erano gli altri che si stipavano in loggione per guardar giù quelli della festa che se la spassavano. Erano felici se potevano cogliere col cannocchiale un intrigo, seguire un idillio; si accontentavano di mandar giù la saliva e di portare il lume. Fra le ore piccole e l'albeggiare cominciavano dabasso le cenette intime nei palchi. Tiravano le tende i signori... e allora, su in loggione, el pover Carlin passava adagio adagio un braccio intorno alla vita della sua Luisoeu e guardando tutti quei palchi chiusi come alcove, pensava che anche per loro due era tempo d'andarsene a casa...

... Ma, ecco, il libro di strenna, dopo le pagine dedicate all'inverno, altre ne offriva per la primavera e l'estate. Una vignetta rappresentava un nido su un ramo in fiore. Si vedevano gli uccelletti pur mo' nati che mettevano il capino fuori a guardar giù il mondo nuovo per essi smagliante di colori vivaci e di acque correnti... La solita poesietta diceva: Pio, pio, pio Io amo il nido mio La mamma, il sole, il rio Pio, pio, pio...

Era la stagione delle corse a San Siro, unico sport ammirato a quell'epoca. C'erano invero le società ginnastiche, la «Forza e Coraggio», i «Forti e Liberi» e i «Canottieri dell'Olona» ma erano cose private, senza pubblico di spettatori. Le corse di cavalli invece tiravan folla. Le belle domeniche di fine Maggio o di Giugno nun se toveva su - si prendeva su, ci si metteva in cammino, voglio dire, - per andar a San Siro. Mio papà, prima di uscire, guardava sempre il tempo:

La zia Rosa, lo zio Cecco, la signora Marina, il Sig. Cesare, la Livietta ed io - tutti a S. Siro - (E la Settimia dov'è? Ah, è quella che ha fatto la fotografia!) «Pioverà?» «Me parariss de no». «A bon cunt l'è mei toeu adree l'ombrella». E si prendevano gli ombrelli. Se non venivano temporali servivano pel sole. Allora ci si riparava anche dal sole perché dava fastidio. Le signore avevano gli en-tous-cas per il bello e per il brutto. A San Siro non siamo mai andati altro che nel prato con cinquanta centesimi o una lira nei giorni di Grand Prix. Delle corse, per essere esatti, non si vedeva niente. Quando suonava la campana della partenza si scendeva in un fossetto, si saliva dall'altra parte e ci si addossava allo stecconato sporcandoci tutti di bianco. Si udiva la galoppata frenetica dei cavalli in corsa. Tutte le teste erano voltate verso destra... un lampo ed erano passati... tutte le teste s'erano voltate a sinistra... Domandavano a mio padre: «E inscì? Coss t'ee vist?» «Ho vist i ciapp di cavai». Poi sul quadro comparivano i numeri dei vincenti. Siccome noi - manco a dirlo - non facevamo alcuna scommessa e quasi quasi non si sapeva nemmeno chi corresse, così, guardavamo con indifferenza il cinque, il sette o il dodici che saltava fuori e senza troppa fretta ci si portava verso quei gruppi di piante, quei bei boschetti ombrosi che sorgevano al centro del prato. Là si chiudevano i parasoli e gli ombrelli, si toglievano i fazzoletti che erano stati messi a tornacollo per riparare i colletti dal sudore, li mettevamo per terra sull'erba, ci sedevamo sopra e si stava lì a prendere il fresco. Mio padre, per passare una mezzoretta, raccontava qualche ingenua storiella sulle corse; come fu - per esempio - che in un giorno di gran premio tutte le preferenze erano per un cavallo famoso, quotatissimo, e come fu poi che, essendo venuto a piovere, il terreno fattosi pesante, aveva finito col vincere l'ultimo dei cavalli nell'apprezzamento del pubblico, un cavallone enorme che dové la sua vittoria ai suoi zoccoloni tanto larghi da poter correre nella mota.

Coll'orlo della magiostrina sugli occhi per difendersi dal ciasmo mio padre tirava filosoficamente la morale:

«Te vedet? Quand se nass fortunaa, pioeuv sul cuu anca a vess settaa». Non lontano da noi i ben pasciuti cavalli dei cocchi signorili scuotevano le orecchie tintinnando le sonagliere e di tanto in tanto tiravan qualche boccata d'erba dal prato. I servitori in giubba rossa muovevano pigri passi intorno agli equipaggi, aggiustavano un tirante, accarezzavano una groppa, oziavano in attesa che anche quella seccatura delle corse finisse.

E finiva finalmente! Da San Siro on poo a pè on poo a piedi - come diceva mio padre - tornavamo in città.

A un certo punto del viale si lasciava la fiumana della gente e si svoltava a destra per un viottolo di campagna che andava giù seguendo l'Olona e sboccando pressapoco allo stabilimento De Angelis. Un chilometro più in là ecco il tram a cavalli al suo capolinea, ma il papà non si lasciava sedurre - pedibus calcantibus si rincasava. In via Fieno trovavamo in tavola ad aspettarci il solito pranzo della domenica: riso e fegatini e arrosto coll'insalata. Se c'erano le ciliege me le prendevo nel tovagliolo e andavo a mangiarle sulla ringhiera.

Le corse di San Siro avevano due categorie di spettatori. Quelli del prato che guardavano i signori delle tribune seguire le fasi della gara e godevano del loro godimento, e quegli altri ancor più modesti che in Foro Bonaparte, via Dante, piazza Elittica assistevano al ritorno delle vittorie, dei phaeton, degli stage. Le famigliette borghesi, sedute al caffè Gnocchi con davanti la granatina e i tagli limone selz andavano in piedi alle sedie quando sentivano le cornette dei tiro a quattro. C'era sempre qualcuno che si spingeva in prima fila e per darsi importanza salutava in una qualche carrozza un immaginario amico e poi, non ottenendo risposta al saluto, diceva al suo vicino:

«El m'à minga cognossuu».

Intanto per le viette laterali i disgraziati proletari del basto, i democratici ronzini dei calessi e dei brum perdevano i ferri sull'acciottolato. Dopo tanto correre in quelle giornate di lavoro nemmeno la frusta bastava più - surrogato della biada - a infonder nuovo vigore. Certi brumisti verso sera, tiravan fuori di soppiatto dei randelletti duri e con quelli pestavan sodo sugli ossuti gropponi e le povere rozze tiravan là del tutto ignare - come diceva un numero del «Guerino» - che in quella fausta domenica

s'erano spese cento mila lire
per l'incremento della razza equina!

Ma intanto, preparati, che l'estate è qui! L'annunciano nelle strade i venditori ambulanti. L'omm de la carretta porta intorno il sole coi suoi pomodori. Dal fondo delle vie lancia una colonna di luce verso il cielo. «Pomido - o - o - o - o - ri!!» Non tutti mi capiranno, ma io in quegli o rotondi che si allargano... che si allargano, vedo rosso, sento caldo e mi vien voglia di farmi vento anche in pieno Gennaio. Il canto dell'omm de la carretta saliva da via Amedei alle nostre cinque finestre... «bei tomates... quindes e vint al chilo i bei toma-aa-tes!»

Quindes e vint al chilo erano i prezzi d'allora. Il mio amico Giuseppe Degli Occhi che uscendo dagli uffici della Veneranda Fabbrica del Duomo ove copre la carica di Cancelliere Perpetuo, passa per il mercato di piazza S. Stefano e vi si ferma a far spesa, mi ha detto che adesso sono a uno e sessanta. Dieci volte tanto! In compenso però siamo ridotti a un decimo della felicità che si godeva nei primi anni del secolo. L'equilibrio si è così ristabilito! Quando sentivo quel grido la bicicletta scendeva dal treppiedi ove era stata tanti mesi a riposo e la macchina fotografica usciva definitivamente dalla scatola.

Dal 4 × 5 del «Le Paris», una macchinetta di cartone che vendevano all'Esposizione di Como del '99 per una lira comprese due lastre, una bottiglietta di sviluppo e una di fissaggio, sono passato al 6.½ × 9 di una macchina a cassetta e infine alla Kodak 7 × 11 dopo la raccolta dei fondi di un pingue Natale. Lo zio Cecco mi aveva per l'occasione pupazzettato fermo davanti alla vetrina del negozio di corso Vittorio Emanuele e sotto aveva scritto:

«Poss pù dacch
D'avecch la Kodak!»

Fotografo la macchina fotografica. Il formato 7 × 11 è stata la mia ultima tappa; al 9 × 12 non sono mai arrivato per via del prezzo delle negative e di tutto il resto. I miei ricordi fotografici sono ora raccolti nella scatola di un regalo natalizio ancor più remoto: «Piccolo ingegnere» - si legge sul coperchio in stampatello oro sbiadito - «Pantografo, Arti e Scienze». Tengo fotografie di molti paesi. Questa della signora Antonietta che non riesce a salire sull'asino è di Barzio.

La signora Antonietta non riesce a salire sull'asina. L'Elisetta è davanti ed è già sù. A Barzio ci siamo andati due anni di fila, caso strano perché mio padre cambiava sempre. Ma era uomo preciso, si compilava un itinerario di gite e tutte dovevano essere fatte. Il primo anno della Valsassina piovve sempre, ecco perché si tornò l'anno dopo per esaurire il programma. Nell'andare in montagna il signor Senio aveva il suo metodo e non decampava. Partiva comunque.

«Ma se pioeuv?»

«Fa nient, dopo el brutt ven el bell». Per le mezze altitudini ci arrivava d'un fiato, ma al disopra dei milledue faceva una sosta di un paio di giorni fra i seicento e i settecento metri. «Inscì se climatizzom» - diceva. Appena su, muoveva in cerca del calzolaio per farsi mettere i chiodi alle scarpe e faceva amicizia col portiere dell'albergo al quale chiedeva i nomi delle montagne e dei paesi in giro controllandoli però sulle carte dell'Artaria riguardanti la zona e delle quali era sempre munito.

La mattina dopo andava alla posta e consegnava all'ufficiale postale per il fermo posta un cartoncino con su bello in grande e sottolineato il suo cognome «Tessa» e in piccolo «Senio». «Perchè - commentava - fra Tessa e Senio sbaglien casella. Me metten in de l's invece che in del t». Per salire a Barzio ci veniva a prendere alla stazione di Lecco el Pifani col suo sgangheratissimo calesse, tanto sgangherato che una volta al Ponte della Folla si divise in due, netto. La metà davanti col Pifani a cassetta continuò il viaggio e noi di dietro scivolammo nella polvere della strada.

Per le gite in montagna c'era el Tal e Qual coi suoi asini. Le signore e le signorine allora non camminavano molto; per andare in su ci volevano le cavalcature. Quelle poche volte che in questi ultimi anni ho lasciato Milano d'estate per Macugnaga, per Solda o per Valtournanche, mi sono accorto che asini e muli come aiuti nelle gite sono passati di moda. Credo che le signore si vergognerebbero a farsi trovare adagiate in sella. Una volta era il contrario; quasi quasi si vergognavano a camminare. Sovente svenivano. Strette nei busti piegavano come pallidi giacinti. «Alt... alt...! l'Eliseta la stà mal... gh'è vegnuu fastidi...» Il serpentello variopinto dei gitanti lungo il sentiero, sulla costa del monte, s'arrestava... Qualcuno diceva: «Signor!... che piaga!» «I saj! I saj! Chi l'è che gh'à la boccetta di saj!»

Mia madre aveva sempre con sé una piccola scorta de grann de zuccher e un flacone dell'asee di sett lader di S. Maria Novella. I grann de zuccher erano un tonico, un corroborante per le salite, l'asee di sett lader serviva per i mancamenti. Il flaconcino passava di mano in mano.

L'Elisetta era lì svenuta sul praticello: Mio padre si è tolto i calzoni e, se ben ricordo, cerca di smacchiarli. «Besogna slazzagh la fassetta». Una mamma, in sostituzione di quella giusta se non era della comitiva, vi provvedeva. I giovinotti si voltavano a guardar la bella vista mentre un'amica, in ginocchio, davanti, si toglieva di capo la pastorella e le faceva vento. L'Elisetta a grado a grado tornava in sé, le guance si ricoloravano vagamente e infine apriva gli occhi. «Su, su... bev on gott d'acqua!» L'Elisa granda, l'altra mia cugina che chiamavamo così per distinguerla da quella piccola, dominava la scena appoggiata all'alpen-stok aspettando di rimettersi in marcia. Lei non sveniva mai, non si serviva mai di cavalcature e quando arrivava alle baite della Colma voltava via delle basle di polenta e latte. Dopo mangiato l'Elisa granda si sdraiava sul prato magro al freddo sole dell'alpe e cadeva in profonda tristezza per la fatica della digestione. Ho tenuta per ultimo la fotografia del «Babbin». Chi lo direste voi vedendolo lì impalato come uno spaventapasseri? Con quel cappellino chiaro, la barbetta bianca, il bastoncino e il plaid sulle spalle sembra il signor Nessuno. Eppure il dottor Candiani era uno dei primi notai di Milano, presidente del Consiglio Notarile, Sindaco di Legnano, Padron de cà - sapristi - e cavalier!

Ma tutto questo è niente in confronto a ciò che ho scritto sotto la fotografia. El Babbin (babbino o cao-bibi, la Settimia chiamava così il suo paparino e caa-mimi la mamma) era proprio l'uomo più buono del mondo. La Maria Gatt o più semplicemente la Gatt diminutivo de la Gatta de marmo - una vecchietta che veniva da noi e in casa Candiani a mezzo servizio nei mesi estivi e che chiamavamo così per i suoi movimenti lentissimi e studiati - diceva del signor Cesare: «Pover scior... pover scior... bon scior... sant omm... sant omm!»

Dò una legnata all'uomo più buono del mondo. Non era troppo amico dei preti il signor Cesare ma era santo lo stesso. Da giovinotto aveva un cane di nome Tell, un barboncino che la zia Angelina sosteneva gli somigliasse.

Nel sessantasei andò volontario (lui, non il cane) Ussaro di Piacenza e il suo Tell lo seguì verso i campi di Custoza. Il padrone marciava indrappellato e il barboncino (bep... bep...) gli trotterellava pari pari al margine delle carrozzabili. A un certo punto arrischiò una timida osservazione: «Però... Ceser... te gh'ee pensaa? Cunti anca ti: vun, duu, trii, quatter, cinq... e poeu quisti... e poeu quisti... hinn tanti, te vedet? Se gh'emm de dacch a tucc, a num cossa me resta?» «L'è vera, l'è vera, adess basta...» E tacque pensoso ma la mano intanto accennava ancora al foglio e alla matita: «... Sent... sent... ghe sariss... ma questa l'è l'ultima, l'è propi l'ultima... ghe sariss quella povera veggetta...» Si spense così e i suoi poverelli, i suoi tanti poverelli da lui nascostamente e a lungo beneficati e che lo avevano preceduto di là... lo stavano aspettando... E con essi el Babbin si presentò al Giudizio. III. La mia sostanza in franchi svizzeri dopo il cappuccino che ho preso si riduce a dieci centesimi. Sono un povero uomo seduto su una panchina del quai di Lugano che rimpiange la felicità perduta. Un bambino piange. Piangono dunque i bambini in questo paese? Quasi me ne stupisco. Una nebbiolina color anicette avvolge i monti e il lago... riposano in un nimbo. Un fiocco rosa è sul San Salvatore...

Di ritorno a Lugano dopo una colazione a Cavallino. Ho davanti le lance che aspettano sulla riva i forestieri per una lagada; di dietro scalpitano i cavalli delle carrozze da nolo. Dicono di sì, dicono di no colle teste chiuse in cappuccetti bianchi che lasciano fuori le orecchie. Fra le carrozze e le barche fluisce il placido mondo cosmopolita che si dà convegno qui in autunno e primavera. Ho visto altra gente passeggiare in altri luoghi di riposo... a Cadenabbia... a Viareggio... al Lido... ma mi pare che sotto questo cielo camminino in modo diverso. Altrove è visibile la volontà di divertirsi, c'è qualcosa di duro, di teso, ma qui la gente si abbandona, sembra aver lasciato i suoi crucci alla frontiera; li riprenderà al ritorno, vivono, per poco, come negli anni patriarcali e senza mutamento dell'anteguerra. Cosa costava allora la funicolare che da Lugano porta alla stazione? Mi pare quindici centesimi; e ora? Lo stesso! I milanesi che le domeniche baraccavano da Melide a Tesserete tornavan a sera mezzi in cimberlis verso Chiasso o a Porto cogli ultimi battelli.

... Il Sempione infilava il sotto ponte di Melide... «Sbassa el coo Carolina se no te tócchet denter». Poi uno gridava ai bandisti: «L'inno... l'inno!» ...e un altro... «L'inno!» ...e tutti... «L'inno! L'inno!» e la banda... Si scopron le tombe si levano i morti... attaccava l'inno di Garibaldi fragorosamente!... ...da prua a poppa, in lunga fila, le sandaline fremevano alla brezza notturna! A Chiasso e a Porto i milanesi si stipavano alle frontiere. Ma che passaporti! Libero ingresso! Libera uscita! Sfrosavano le sigarette sotto i cappelli; poi si dimenticavano di avercele messe e davanti ai doganieri: «Buona sera scior Magistrett...» ...salutavano un amico e giù... tre, quattro pacchetti per terra!

C'è una scritta di dietro: Tesserete 3 agosto 1903. Prima dell'elettrico a terza rotaia sulle Varesine i gitanti si stipavano nei vagonacci di scarto che le FF. SS. mettevano a sgangherarsi sulle linee secondarie. Scompartimenti lunghi come budelli, illuminati la notte da fumosi lucignoli. A mia zia Luigia ne capitò una bella! Di ritorno da Lugano pisolava la zia dopo Arcisate di faccia a suo marito lo zio Ercole che dormiva sin da Bisuschio. A un tratto lei si snebbia, apre gli occhi... «Signor, che padella!» Si trova una gran macchia d'unto, lì, proprio sopra il ginocchio! Per non far brutta figura colla gente la copre con un lembo della sottana e torna a pisolare. Poi si desta lo zio... vede... non vede... si china sull'abito della moglie... «Luisa?» «Eh?» «Luisa, vaa che maggia che te gh'ee chi!» «Oh! Madonna! On'altra padella!» Sicuro! Sempre allo stesso posto sopra il ginocchio. La zia torna a voltar su un'altra falda della sottana, si ricompone borbottando e prima l'uno e poi l'altra riprendono a coccar via... Questa volta è un signore che le siede vicino a toccarla leggermente sul braccio... «Signora!» «Eh! Cossa gh'è?» Il signore fa cenno al mezzo globo della lucerna sul soffitto del vagone. Sotto la luce giallognola dello stoppino nel cavo della tazza di vetro, ondeggiava una larga chiazza d'olio che... tac... tac... tac... lasciava cadere dei goccioloni sul vestito della zia! Di quell'abito e delle macchie si parlò in casa per un pezzo. La zia Angelina non si dava pace, chiedeva alla sorella: «Ma ti come t'ee faa a capì no?» «Coss te voeut che te disa, quand se dorma!... Anca l'Ercol el dormiva...» Portarono la sottana dalla signora Rosa Villa la cavamacchie in San Giuseppe. La signora Rosa osservò la stoffa alla finestra, la fiutò, poi chiese: «Lee la gh'à minga miss man, vera?» «Oh giust! L'è come l'era».

«Ah! ben... ben... se l'è inscì...» La sottana tornò come prima; passaron mesi e mesi e ogni volta che la zia metteva l'abito grigio perla c'era sempre qualcuno che le chiedeva: «Questa chi l'è quella famosa sottana?...» La signora Rosa Villa cavamacchie all'angolo di via Dell'Orso è morta chissà da quanti anni, ha lasciato però il suo segreto alla nipote. In questi ultimi tempi mia madre andò in cerca di lei; ne chiese alla portinaia: «Ghe stà chì ancamò?...» «La gh'è pu». «Dove l'è andada a stà?» «Soo minga, prima de andà via la diseva che l'era su quella de cambià mestee perchè tant come cavamacc la lavorava pù. Adess i vestii se laven». E mia madre si riportò a casa la mia giacchetta. A Lugano c'ero in luglio ed in settembre. L'agosto lo passavo in dent - nella Svizzera interna - coi miei, su e giù per i valichi alpini, loro due in diligenza e io di dietro in bicicletta. A Lugano stavo a Montarina dai signori Candiani ospite loro. La sera della domenica si andava giù in piazza a prendere il gelato al Caffè della signora Polonia. Dopo pranzo il signor Cesare soleva scrutare il tempo e se era nuvolo diceva:

Polonia sbatt minga i oeuv
che stassira el pioeuv.
Al piano di sopra abitava il mio amico Pier Giorgio con sua madre e sovente c'era pure don Carlo Bonacina che era un po' il suo direttore spirituale. Pier Giorgio serviva messa a San Lorenzo, portava delle giacchette scure abbottonate sino al mento e dei colletti che eran già quasi dei collarini. Con tutto ciò prese moglie.
Quando seppi la notizia, triste o lieta secondo i punti di vista, gli lasciai su un foglio questa quartina:
Parlando del futuro tempo fà,
è in mano del Signore, si diceva:
Ai nostri giorni invece si dirà,
Esso è in potere d'una figlia d'Eva.

Io nel '98.

... voltando la mia fotografia. Le medaglie della vecchia ditta. La mia passione per il lago e per le barche è documentata dalla fotografia formato salon che mi presenta ragazzetto seduto su dei massi di cartone, su uno sfondo color cielo sfumato e con in mano un canottino a vela. La fotografia mi è stata presa a Milano in corso Vittorio Emanuele dal fotografo L. Ricci insignito di medaglie d'oro a Torino e a Genova. A tergo del cartoncino Bristol si ammirano le medaglie.

A Tesserete, sul terrazzino della signora Lepori; mio padre è quello che beve il cappuccino. Dalle barchette a vela, per successivi passaggi, sono arrivato sino al battellino a vapore in occasione della licenza elementare quando cioè, come si diceva in casa: M'àn daa in man la prima carta del buter!

Dal nostro balcone a Moltrasio. Il temporale si avvicina. La fotografia doveva riuscire nera per il brutto tempo invece è riuscita bianca.

Mi risulta che la mamma e il papà rimasero incerti per qualche tempo circa l'opportunità dell'acquisto. La mamma aveva paura che mi scottassi colla spiritiera. Il papà aggiungeva: «El sarà poeu bon de dropal?» In una sera dei primi di luglio eravamo tutti a pranzo al Savini in Galleria, un pranzo offerto dalla signora Antonietta Gussoni una vecchia amica di casa. C'era - me ne ricordo come se fosse ieri - il minestrone freddo.

Tre amici a Montarina. Pier Giorgio, quello che doveva andare a prete, è il terzo a destra di chi guarda. A un certo punto mio padre alluse di passaggio e senza darsene l'aria, all'ottico Duroni, mia madre accennò vagamente ai battellini a vapore. Poi si parlò d'altro. Dopo un po' la signora Gussoni tornò sull'argomento toccando in generale della necessità per i ragazzi di usare la massima prudenza nel divertirsi coi nuovi giocattoli meccanici... Il giorno dopo verso le quattro (il papà usciva alle tre dalla Cassa di Risparmio) eravamo dal Duroni per l'acquisto. In vetrina c'erano tre tipi di battellini. Uno piccolo per dodici lire, uno più grande per diciotto e uno troppo bello per trenta. Scartato subito il terzo, rimasero in lizza i primi due. Un commesso spiegava dettagliatamente il modo d'usarli: «Chi buj l'acqua, chi ven foeura el vapor e poeu el và». «Sicchè questa chì l'è la caldera!» «Già, l'è la caldera». «Ma se la s'cioppa?!» «Ma no! La s'cioppa no... basta domà tegn bass el stoppin...» Però mio papà non era tranquillo... «Ma l'è roba de nient, gh'el disi mi - insisteva il commesso - l'è come la macchinetta del caffè». Il paragone domestico convinse mia madre che tagliò corto energica come al solito: «Hoo capii... hoo capii...» Decisa la questione di massima, rimase la scelta tra le dodici e le diciotto lire... «Quest' chi l'è pussee grand e pussee belle poeu el gh'à el siffolin che l'è anca valvola de sicurezza». Infine intervenne nella discussione un signore autorevole che si era fino allora tenuto in disparte e che forse era il signor Duroni in persona. Si fece avanti serio, esaminò i battellini come se li vedesse per la prima volta, li palleggiò e concluse: «Chi più spende meno spende». Cinque minuti dopo uscivo con una gran scatola cenere dal negozio. IV. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... Pingh... pongh... ... Pingh... pongh... ... un signore che passa lungo il viale chiede: «Ma diverte poi quel gioco lì?» Lo guardano, sorridono ma non rispondono... Pingh... pongh... ... Pingh... pongh... la bianca pallina va e viene dal tavolo verde ai tamburelli delle racchette... Pingh... pongh... ...Pingh... pongh... Involontariamente a quel battito lieve, aereo e cantante si fa andare la testa di qui e di là come quando si accenna di no... Ancora in qualche famiglia - come in questa- che custodisce con gli usi negletti del secolo scorso lo studio assiduo del pianoforte per la signorina di casa, il tennis da tavola ha la sua parte nei giochi. Rientrando dopo le lunghe, affaticanti e spesso inutili peregrinazioni per la città il vasto cortile mi ferma. Le ore di piano della Lisetta vi circolano liberamente, liquida freschezza. Se ascolto, la vedo. Sono le tre, studierà fino alle cinque. È in ombra; un raggio di sole batte sul parquet e quella macchia gialla illumina a riverbero il salotto. Un fazzolettino di batista è posato a destra al margine della tastiera. La Lisetta lo prende di quando in quando, se lo passa fra le mani e lo ripone. Dopo le cinque - dalle cinque alle sei - c'è l'ora di tedesco, alla mattina c'è stata l'ora d'inglese, e non crediate che questi studi mirino a un qualche profitto, a una qualche utilizzazione economica, no, certo tutto è qui come una volta, ornamento di varia coltura a una fanciulla di famiglia agiata.

Vi ricordate di quei cartellini di solito neri e a lettere d'oro esposti nei negozi di lusso di Monte Napoleone, sul Corso o in Via Manzoni? Vi si leggeva: «Ici l'on parle quatre langues». Era allora una cosa poco comune in un negozio parlare quattro lingue ed era un segno di raffinatezza e di educazione distinta la conoscenza dell'Italiano, del Francese, del Tedesco e dell'Inglese, per una gentil signorina.

Anche le mamme di solito se la cavavano abbastanza: solo i papà, poveretti, ignoravano del tutto i lenguacc; non sapevano bene che il loro milanese e nei discorsi d'impegno camminavano guardinghi ai margini di un loro italiano milanesato e di tanto in tanto perdevano l'equilibrio e sdrucciolavano nel dialetto. Ci tenevano però che le figliole imparassero e che le lezioni procedessero regolarmente: «L'è vegnuda incoeu la sciora Marforio?» Eravamo in un giorno d'agosto, chissà quando, su un tram a Zurigo e c'era da scendere in un punto per salire al Politecnico e il signor Cesare dice alla signora Marina: «Digh alla Settimia de ciamagh dove se dev andà giò...» La Settimia tiene col bigliettario un discorso piuttosto lungo e ha un viso perplesso come di chi... «Ma ti oeuj... la capiss no!»

Che la signora Marforio non le avesse insegnato giusto?! ... Più giù, un pochino più giù nella scala dei valori sociali, c'erano nelle modeste famigliole le buone ragazze casalinghe, brave cuciniere e tutte geloni l'inverno; si diceva di loro a titolo d'onore e di commendatizia matrimoniale: «L'è piena de religion e la sa el frances». Mi sono chiesto sovente se la conoscenza delle lingue sia davvero necessaria. Mio padre, per esempio, girò il mondo per suo diletto con un amico, il dott. Tradati, della Senavra e fra tutti e due non sapevano una sola parola di francese, di tedesco poi... e d'inglese... figuriamoci! Il primo viaggio lo fecero a Parigi; vi rimasero - credo - una ventina di giorni e tornarono con una sola frase imparata. Sapevano ordinare a un cameriere: «Une demie bouteille!»

A Mosca si trattava di visitare il Kremlino e c'era per la visita un solo giorno alla settimana. O che la guida non spiegasse bene o che loro non sapessero leggerla, il fatto si è che si presentarono tutti e due alla porta; il custode fa una lunga chiacchierata, fa vedere un cartello, loro non capiscono e tornano indietro. Il martedì sono di nuovo al Kremlino. Altra chiacchierata del guardiano, poi il dottore dei matti e il controllore della Cassa di Risparmio guardano attentamente il cartello, si consultano e rientrano in albergo. «Ma infin, poeu?» «Al giovedì semm andaa denter...»

Sedici pattinatori sul laghetto. Non ridete, sono i vostri padri.

Una volta sola trovarono una persona che parlava correttamente italiano e fu per imbrogliarli. Erano al Pireo e il cameriere a colazione disse al dott. Tradati: «Questa sera mangerai la crema!» Difatti a pranzo portarono in tavola delle tazzinette con dentro qualcosa come del latte. Il dott. Tradati, sospettosissimo per natura, gira e rigira la chicchera, la guarda di traverso, fiuta, assaggia e... «L'è caggiada!» protesta. Prende la chicchera e la mette per terra. Poi l'addita al cameriere sopraggiunto e gli dice: «Mángetela ti!» Mio padre per farsi capire colla sola scorta del suo milanese usava un metodo che mi stupisco riuscisse e che vi raccomando. Parlava forte, sillabando in faccia al suo interlocutore come chi si rivolga a un sordomuto. Se non capivano, prendeva un'ottava più alta, non ottenendo risultato si aiutava colla mimica; per avere del latte l'ho visto fare il gesto della mungitura, hanno riso e glie lo hanno dato. Qualche volta non c'era verso d'intendersi e allora, soltanto allora, ricorreva a un francese bizzarrissimo che oggi con la gran libertà linguistica che si pratica in Francia avrebbe certo fortuna. L'impiegata della posta diveniva per lui «la postine» «Etes vous la postine?» (L'è lee la postina?) Un ragazzo stuzzicava un cane che aveva una cert'aria di mordere? e lui al ragazzo: «A tà tà lo chien ch'il te cagne!» (Lassa stà el can ch'el te cagna!) ... e così via... e via discorrendo o - come diceva lui - e via di scorrensc... El parlà de grass era cosa comune come ognun sa, del tutto naturale pel vecchio ambrosiano. La sua poesia, ricca di scurrilità, assomigliava alla campagna del basso Milanese, fortemente concimata. Essa era la figlia legittima del settecento, il secolo della più grande licenza. Parlavano di tutto semplicemente, senza malizia, anche a tavola anzi preferibilmente a tavola e si stupivano se qualcuno ci trovava a ridire: «Oh bell! perchè, cosa gh'è denter?» Erano degli irrisori, rovinavano tutto con una parola e sovente con qualche cosa di peggio. Era il loro un anti-romanticismo in atto. A proposito; e l'album della signorina Maria? Bello, proprio bello, legato in plusc colle borchie d'ottone era posato di solito su un tavolinetto maggiolino. Gli amici, i conoscenti, i visitatori di qualche riguardo erano pregati di scriverci un pensierino, un complimento, un augurio... glielo presentavano aperto con un sorriso invitante. A noi due però quella sera non chiesero nulla; non eravamo abbastanza importanti; lì, soli, seduti in salotto ci divertivamo a scorrerlo, il bellissimo album; una frase ci colpì. Il rag. Giovanni Brambilla aveva scritto: «La vita è un punto nero». Ci guardammo; già, proprio così! Il mio amico prese il lapis e... sotto... proprio sotto a «la vita è un punto nero» scrisse: «... e el bus del c... l'è un alter!» Chiuse e rimise al suo posto. Poi andammo di là giusto quando la signorina Maria terminava al piano lo studio di Chopin, quello dell'entrata dei Russi in Varsavia. «Brava!... brava!... che tocco! che mano!» Tornando a casa la notte immaginavamo la scenetta che avrebbe potuto succedere in una qualche serata futura. A un signore è offerto in visione l'album e se lo tiene davanti, sulle ginocchia, aperto e lo sfoglia e in presenza della mamma legge qua e là a mezza voce: «... siano i tuoi pensieri...» E dopo: «... come la rosa che a maggio...» «Bello, questo disegno, bello!» «La mia figliola la pregherebbe... due parole...»

«Ma sì... veramente, ora, però... non saprei...» «Più avanti c'è ancora qualche pagina... oh Dio, amici di famiglia...» «Vedo... vedo» e legge: «La vita...» ... Il signore prende l'album con le due mani, osserva più attentamente... «La vita... el bus?...» «El bus?! cosa? el bus?!» La mamma si alza, si accosta, prende il lorgnon, legge, aggrotta le ciglia... «Cosa? cosa? una sconcezza... uno scherzo... mi scusi... di cattivo genere...»

«Ma no, ma no, signora, le pare? un caposcarico, un buontempone...» Già, un buontempone, un caposcarico; quanti ce n'erano allora! Gli scherzi d'amici, i pesci d'aprile, i tiri birboni... era l'aria, che volete che vi dica, l'aria del tempo, che li favoriva, c'erano così pochi pensieri... Quel mio amico, di poc'anzi, quello dell'album, ne aveva sempre di pronti e una sera ne giocò uno di un tiro ma bello al Maestro Gallignani, direttore del Conservatorio. C'era, mi ricordo, un concerto Toscanini nel salone grande, e alla porta a verificare i biglietti d'invito pei casi dubbi incrociava Gallignani in persona. «Te védet l'è lì lu... e come faroo a andà denter?» Lui veramente era fratello di un'allieva della scuola di pianoforte e voleva far valer questo titolo: «Mi proeuvi...» e tenta... «Io sono...» «Signor Direttore, c'è qui il signor...»

«Sì, sì, lo conosco, lo conosco ma mi rincresce, non si può, non si può proprio...» Messo alla porta, gira furibondo per via Passione, San Damiano, svolta in Monforte... come si fa ad allontanar Gallignani dalla porta? Gli viene un'idea.

Sale da un amico: «Gavariss de telefonà...» Chiama il Conservatorio... portineria. «Per favore, potrebbe chiamarmi il Maestro Gallignani?» Vanno a cercarlo difatti e viene all'apparecchio. «Mi scusi Maestro ma è cosa urgente, torni a casa... presto, è scoppiato un incendio nel suo appartamento...» «O Dio... un incendio?... vengo, vengo... ma lei, scusi, chi è?...» «Non mi conosce, mi hanno incaricato di avvertirla, telefono da un posto qui vicino». «Oh grazie... corro... corro subito».

Nel mentre che Gallignani prendeva il cappello e perdeva il primo tempo della sinfonia di Brahms, quell'altro si ripresentava alla porta e in assenza del cerbero riusciva a passare.

Poi nell'intervallo fra la prima e la seconda parte del concerto i due s'incontrano faccia a faccia... «Buona sera, signor Direttore».

Qualcuno si volta a quel saluto forte e cordiale. Gallignani a buon conto guarda da un'altra parte pensando che è meglio, molto meglio circoscrivere l'incendio del pettegolezzo.

Questo era il mondo: ... ma poi... che cosa è successo nell'estate del '14? Lo sapete voi? nessuno lo sa ancora? Io direi che a furia di bon mots, di ozi beati, di choux a le crème, di deliziosi chalets, di studi di Chopin si è finiti nella più atroce delle guerre. Chi non vi dice ora che da miseria e da odii non sorga la più duratura delle paci? Se non si fosse capitombolati in quel tragico due d'agosto che è stato davvero e per la prima volta «la giornada di omen» e cioè la beneficiata di tutti gli uomini che ci hanno rimesso la pelle, le fotografie che voi vedete sarebbero veramente imagini di un bel mondo, ma così neanche la baldoria del Corso mascherato alla Foppa riesce a mettermi di buon umore. A dir il vero non c'è mai riuscita. Ho un'idea nebulosa dei carnevaloni all'epoca del tram a cavalli quando i barconi salivano fino ai primi piani. Mi ricordo che se li facevano passare dal Corso Vittorio Emanuele noi si andava a vederli sul balcone del Barnacchi il pellicciaio all'angolo di S. Paolo al quale la mamma dava in estate a custodia il manicotto, la palatina e la pelliccia di martora per salvarli dalle tarme. Se passavano invece da Corso Garibaldi andavamo dal Rocch l'unico nostro parente che è diventato ricco perché aveva messo su bottega de bois in Pont Veder.

Coi tram elettrici i Corsi mascherati declinarono per via dei fili che obbligavano i barconi a star bassi. Facevano dei giri inverosimili per portare una manciata di coriandoli e uno schiamazzo d'allegria sino in vista del Cimitero Monumentale. M'è sempre piaciuto seguire i cavallucci bardati a sgargianti gualdrappe e i carrettoni dei mascherotti verso la periferia. Là più nessuno li guarda, c'è soltanto un mucchietto grigio di gente intorno che vocia, ma il punto ancora più triste per il corteo, è quando è al termine del suo percorso e si volta e torna indietro. Qui i mascherotti non trovano che l'edicola dei giornali e la pompetta dell'acqua potabile. I cavallucci variopinti prendon su qualche fischio e si mettono al trotto, tutto scricchiola e traballa! Le smargiassate carnevalesche hanno bisogno d'esser tenute su, se no cadono come cenci.

Oh, le ultime piccole giostre sulla valletta dei bastioni dove la Fiera di Porta Genova andava morendo! Pioveva di solito e non c'era anima viva e la giostra era ferma. Se andava eran due uomini che la facevano andare girando una gran ruota. Di fronte, a un minuscolo palcoscenico alla Gioppino, s'affacciava un vecchietto con la barba bianca, giubba e berretto rosso da garibaldino, vendeva il cerotto per i calli. Sentivo odor di stalla, e di zucchero filato; passavo un circo equestre, il Palazzo delle pulci e andavo in cerca della mia giostra, quella alta a due piani che la sera s'illuminava a sandaline di tremoli lumicini e non muggiva, non fischiava e aveva un organo lento e grave e un cavallo la muoveva, un cavallo cieco che andando, girando accennava di sì, di sì, di sì... Seduto, accolto come in una conchiglia, guardavo la coda e le orecchie del cavallo e giravo con lui. C'è qui una ventina di giostre - dicevo - e tutte girano e la gente paga per girare... Perché?

Poi, altrove, c'era il labirinto cogli strilli e i gridolini di gioia delle ragazze sorprese nelle girivolte e qualcuna usciva a precipizio scarmigliata, con le vesti in disordine, usciva gridando in mezzo alle amiche che ridevano: «M'àn toccaa la pell! M'àn toccaa la pell!»

Con trenta centesimi si aveva l'illusione d'un viaggio in ferrovia. Appena dentro davanti a una banchina di legno c'era un fac-simile di treno. Si saliva in uno scompartimento di seconda classe e si aspettava; un'ora, magari, se c'era poca gente. Adesso strepitano subito, una volta nessuno s'impazientiva. Finalmente chiudevano gli sportelli, un fischio e dall'altra parte dello scompartimento si illuminava un telone con su un paesaggio dipinto e... oscillando, piegandosi, facendo sacche il telone si moveva tirandosi dietro i pali del telegrafo, i villaggi, le pianure, i monti, i laghi e... fi i-i-i-i-i-i! Un altro fischio e il viaggio era finito! Ai serragli non ci sono andato che tardi perché da piccolo avevo paura di tutto ed anche oggi non mi distinguo per eccessivo coraggio. Ultimamente - lo confesso - ho rotto il puntale dell'ombrello per difendermi da un farfallone della luce elettrica. Figuratevi poi se i leoni mi ispirassero fiducia a sei anni!

Al sentire quei ruggiti che parevano venir di sotterra, mi turavo le orecchie come quando da Cernobbio a Moltrasio in battello cominciavo a turarmele alla Villa d'Este per paura del fischio alla punta di Pizzo. Mah! Non sono mai stato un robustone, per arrivare alla sessione di Luglio avevo bisogno di una decina di giorni di vacanza a Maggio. Sono sempre andato avanti a furia di «giustificazioni» e di olio di fegato di merluzzo. Se mi passo la saliva in bocca ne sento ancora l'odore e il sapore fra naso e lingua. Lo prendevo prima del caffè e latte. In primavera ero verde. La mamma mi guardava le gengive, il bianco degli occhi e scriveva il solito biglietto:

Uscivamo dunque verso le nove e andavamo ai Giardini Pubblici. Là non facevo niente. Seduto su una panchina seguivo con l'occhio distratto le ombre delle piante, mobili sulla sabbia. ...Uscivamo dunque verso le nove e andavamo ai Giardini Pubblici... Non ho mai fatto niente nella vita, ho sempre guardato gli altri a muoversi... Gli allievi del Politecnico coi loro istrumenti prendevano delle misurazioni nei viali. Come li invidiavo! Studiare all'aria aperta in un bel giardino! Le dieci: mi sentivo felice pensando che in piazza Beccaria nella terza A stava per cominciare l'ora di matematica, che il Prof. Ravazzoni entrava col suo registro, si sedeva in cattedra, lo apriva e accarezzandosi la barba nera e scorrendo i nomi sulla pagina, diceva: «Vogliamo sentire...» Che gelo! Le interrogazioni di matematica sono sempre state il mio incubo; la lavagna e il gesso che mi trovavo fra le dita e non sapevo che linea tracciare, che numero scrivere! Me ne sogno ancora qualche volta, un sogno angoscioso! So di essere avvocato e di esercire la professione da anni, ma so anche di aver lasciato indietro un esame di matematica che non sono riuscito a passare e mi domando: E se lo vengono a sapere? mi cancelleranno dagli albi e mi toccherà rifare tutti gli esami e chi mi darà ripetizioni? E potrò passarli? Nel destarmi non riesco a raccogliere le idee, a snebbiarmi, a ritrovarmi. Ma finalmente son desto e respiro! Come allora respiro in quelle mattine ultime d'aprile; che sollievo, seduto su una panca ai giardini, vicino alla mamma che lavorava! Il professor Ravazzoni poteva ben cercare il mio nome sulle pagine del registro e trovarlo e alzare la testa e dire: «Sentiamo Tessa!» Io non c'ero! Ho tentato una fotografia artistica. Ma la vera felicità, quella piena è di chi sa d'essere in campagna mentre gli altri sono a scuola ed era la mia a Moltrasio, in Maggio! Chiuso l'appartamento degli Oberti, chiusa la Villa Galloni, nessuno al Caffè della Posta. In giro non vedevo che la gente del paese... El Bustoch, la Dorina, el Pedrin... El Pedrin, seduto sul muricciolo della carrozzabile al Carlasc si lagnava del suo mal di stomaco col dottor Perlasca. «Basta che beva un biccer de vin ch'el me ven...» «L'è minga quell che bevii, cara el me omm, l'è quell ch'avii bevuu...» La sera, in barca, andavamo costeggiando verso Urio. Remavo raccolto, tranquillissimamente tanto che si sentiva il cigolìo leggero del timone a poppa. Facevo la rondinella; le pale dei remi fra le due immersioni sfioravano lo specchio dell'acqua segnandola di una scia di goccioline. Remavo come una signorina, ero un ragazzetto gracile e ci tenevo ad esserlo perché mi dava la possibilità di vacanze supplementari... Mi rendo questa giustizia; non ho mai amato la scuola ed ho sempre odiato i banchi e i libri di testo. Ne facevo un falò d'anno in anno, risparmiando soltanto i bigini per debito di riconoscenza. Che silenzio, che pace sul lago dal tramonto del sole al sorgere della luna! Onde spente parlottavano lungo le rive, ma sui gradini degli sbarchi, ma nelle gole delle darsene il lago era freddo, cupo, nemico... Chiamava... chiamava tacendo. Tornavamo poi prendendo il largo; lumi s'accendevano all'altra sponda, pochi, ma dalla punta di Torno in là, tutto buio... ... Giugno, Luglio, Agosto, o Dio... Settembre, ci siamo! Le ripetizioni, gli esami di riparazione! ... «Gallia est omnis, divisa in partes tres...» Le lezioni di latino che il professor Fasanotti mi impartiva nella sua casetta di Casarino sono nella mia mente legate ai pedù, ai peduli, alle scarpe di corda delle quali dovevo preventivamente munirmi per andar su da lui. Che strada! Che sassi! La zia Gaetana che aveva i piedi dolci non poteva soffrire Moltrasio per i sassi: «Quell tò Moltras - protestava alla sorella - con qui sassoni... Appian sì che l'è un bel sit, quand son stada dal Piero...» Salendo per la mulattiera erta di Monte mi fermavo a prendere fiato alla seconda svolta. Il lago era giù, limpidissimo, fresco, a guardarlo calmava la sete. L'acqua! L'acqua! Mi dicono che il signor Cesare Ponti per tanti anni banchiere a Milano e sempre vissuto fra cedole e assegni col cardano in testa, adorasse l'acqua, venerasse l'acqua! E aveva ragione! L'acqua sta all'ordine fisico della Terra come la poesia sta all'ordine spirituale. Vedete? Questa va scomparendo ed è un sintomo grave. Già s'inizia il periodo di inaridimento. Le quattro modestissime lirette che il professor Fasanotti chiedeva a mio padre per le lezioni, se non hanno operato il miracolo di mutarmi in un Gandino o in un Inama hanno fatto ben più per la mia vita favorendo e stimolando in me la tendenza alla poesia. Dinoccolato e sempre in peduli per la necessità dell'arrampicarsi su quei maledetti sassi detestati dalla zia Gaetana, tirava fuori un fascio di mezzi foglietti, li voltava, li rivoltava e: «Sent, sent, quest l'è bell».

Mi leggeva un sonetto:
LA PREDICA D'ON CURAA DE CAMPAGNA
Sii nanca giò del lett ch'el primm penser
l'e cor in de la stalla, in del stabiell,
curà l'asnin, la vacca, el boeu, el porscell
o dà on'oggiada all'uga, ai pomm, ai per,
o cor al banch intorna a qui stader
che dan mai el pes giust e intant per Quell
là su ch'el gh'à la pesa giusta, Quell
che incoeu el pò toeuv quell che gh'avev[ev] ier,
nient del tutt! ma el primm asen l'è el Signor,
la prima vacca l'è ancamò el Signor,
la prima vigna quella del Signor,
el primm porscell l'è lu, l'è lu el Signor,
donca prima de tutt l'è sto Signor
e innanz fottà quaj cos, preghee el Signor!
A mia volta glie ne recitavo a memoria uno dei miei. Tornavo da Engelberg quell'anno e là, una sera, dopo una luminaria avevo scritto questi quattordici versi:
I FOEUGH DE ENGELBERG
Digeriva l'altrer on disnarell
in santa pas, settaa su ona banchetta,
quand tutt a on tratt, coss'ell cossa no ell,
zratatach... è s'cioppaa ona saresetta.
Minga vuna, des, cent ed oltra a quell
di noster trii colur, o malarbetta,
gh'è donca di italian? chi va a savell
in sta ploffera terra maladetta.
Ciosca se gh'in e i hoo poeu vist dre-via
i noster operari e milanes
ciocch, sognorent, sui banch dell'osteria.
Quisti invece de foeugh artificiai
ghe fan onor, pensavi, al nost paes
con di foeugh anca lor, ma naturai!

Lo studio del professor Fasanotti guardava il lago, lui si sedeva in modo di non perderlo di vista ed io gli ero a lato col mio quaderno di esercizi tutto pieno di errori. Nei giorni di regate le norme sull'uso dei tempi si alternavano colle osservazioni sui velieri: «Forza, forza ch'el passa no!...» e a me: «Se all'infinito si aggiunge un oggetto, questo, sempre all'accusativo: "Caesarem venire" che Cesare viene». (Mi domando ancora perché negli esempi latini Cesare sta sempre venendo come una specie di castigamatti).

Villeggianti a Moltrasio. Cercate l'autore.

Intanto due canotti stavano per raggiungere la boa, per doppiarla e lui...

«Vaa,.. vaa... ch'el resta indree... molla quella randa, tira quell fiocch... o Gesù, l'à perduu el vent...»

La lezione si concludeva col violino che il professor Leopoldo cavava dalla custodia e imbracciava guardando il Monte Piatto. «I miei compagni - diceva poi - avevano scelto per tesi di laurea dei temi sulla consecutio temporum, sull'uso del gerundio ma io ho svolto questo argomento: «Il diavolo» e il diavolo trillava ancora sulle corde del suo violino e lui - spiritista convinto - credeva nei rossi libri di Allan Kardek.

Visitavamo infine il piccolo orto raccolto in breve spazio a precipizio sul dorso del monte. Il semplice uomo si compiaceva dei magri frutti di quella poca terra. Per sé e per i colleghi il poeta aveva scritto:

Per me uso e consumm, manch de descor,
g'ho piantaa ona magnifica linosa...
e fior de zucch, reclam di professor!

Tornare in città... cambiar ripetitore, non aver più davanti un rettangolo azzurro di lago, la villa Taverna ma un muro grigio che si intravvedeva al di là di due tendine bianchicce. Soffrivo allora di quei cambiamenti, oggi non più. Il professor Crespi, un po' curvo, un po' giallo, un po' calvo e con una bollicina di saliva all'angolo della bocca amava lui pure la poesia d'un amore antico, timido e infelice. Aveva pubblicato delle odi barbare in fascicoletti che distribuiva agli amici. Sapendomi ammalato dello stesso male me ne regalò alcuni.

L'Abate Parini era il suo autore preferito e mi confidò una volta che voleva essere sepolto col volumetto delle sue poesie. Non ho dimenticato un consiglio che mi diede a proposito di un mio primo passo poetico: «Non uscir mai dalla tua cerchia famigliare». La sua era un po' melanconica in quelle stanze che si aprivano di rado, dalle tappezzerie cinerognole annerite dal tempo. Quando fu? Nel dieci o nell'undici; avevano ospite per alcuni giorni la giovane nuora e in casa loro diede i primi segni di pazzia. Taceva chiusa, sembrava molto triste, non rispondeva nemmeno a interrogarla. Poi cominciò a fissare lungamente, intensamente i ritratti alle pareti e riprese a parlare. Con chi? Non capivano. Parlava con loro, con quegli uomini e con quelle donne morte. Li vedeva staccarsi dalle cornici, li seguiva coll'occhio intento mentre vagavano per la stanza, si sedevano l'uno discosto dall'altro sulle sedie in giro. Teneva loro lunghi discorsi.

Di nascosto faceva impostare dalla donna di servizio lettere a persone immaginarie e sulle buste, in luogo dell'indirizzo del mittente, c'era scritto: «Questo è l'ordine». Una volta videro la luce accesa in sala. Si alzarono adagio, andarono di là. C'era lei. Era seduta al tavolo, aveva scostato il tappeto e teneva in mano un coltello da cucina e faceva l'atto di affilarlo passandolo e ripassandolo sulla superficie liscia del tavolo:

«Ma Teresina, coss te fee?»
«Bisogna difendersi!» rispose cupa.
Non la lasciarono più.
...La mattina la nostra Margherita è lì come al solito sull'uscio che si rebecca col garzoncello del prestinaio.
«Vaa che michett... vaa che michett... brusaa, dur come sass... traghi a dree al tò padron!»
E il ragazzetto quasi tra sé: «Al sò paes mangiaven domà pan de rogieu, s'è dervii i conchett, hin rivaa giò con la piena e se lagnen del pan de semola...»
«Sfacciaa! villan!...»
...Un po' più curvo, un po' più giallo, il professor Crespi esce dal suo uscio che era sullo stesso pianerottolo di faccia al nostro. Sono le nove meno un quarto, va al Ginnasio Manzoni...
«Bon giorno scior professor!»
«Bon giorno, Margherita!...»
E la Margherita, subito, furente a quell'altro...
«Paisan quader... vegni mi in bottega a dighel al tò principal!»
«Ma sì, ma sì che la vegna pur, che la vosa pur che tant mi voo a fraa...!»
Difatti aveva messo di mezzo i Padri Barnabiti di S. Alessandro per andare in Seminario.
E ci andò veramente.