dall’interpretazione della biologia che è associata con il modo di vita di ogni cultura definire ciò che è maschile e ciò che è femminile.[13] In quest’ottica il fattore spazio diventa un elemento comprimario nell’analisi mirata a delineare l’emigrante alpina, uno spazio, lo ribadisco, inteso in termini di distanze culturali.[14] Lo «spazio del possibile» per essa esprime, al contempo, un concetto di mobilità all'interno della società d’origine - verticale - e di movimento migratorio,[15] prodotto dal «muoversi mentale», dal superamento del ruolo imposto dalle tradizioni, dalle consuetudini del tempo e del luogo. È una donna che potremmo visualizzare al centro di una serie di costrittivi cerchi concentrici, tanto più coercitivi quanto più le sono vicini; ed è facile da questa immagine passare per traslato alla «cerchia parentale», l’entità che meglio evidenzia i condizionamenti che essa subiva attraverso la persistenza di fattori socio-culturali di tipo arcaico. Individuabili, quest’ultimi, non di rado nei pregiudizi etnici usati in funzione dello sfruttamento delle componenti ataviche e istintive prodotte dal sistema stesso. Il che, comunque, non impediva ad esempio l’emigrazione di alpigiane ancora nel Cinquecento, come balie a Venezia o come garzoni a Genova; ho citato volutamente queste due attività così diverse tra loro, l’una esclusivamente femminile e l’altra no, per sottolineare come la strumentalizzazione del lavoro della donna sia di fatto al di fuori di precise coordinate temporali, professionali e culturali.[16] La «mobilità di transizione» quale linea di demarcazione tra le presunte sedentarie popolazioni pre-moderne ed il movimento di quelle successive è un’ipotesi che ha ottenuto una certa risonanza tra gli studiosi dell’emigrazione, ma che non può essere applicata all’emigrazione alpina, neppure al femminile; infatti numerose fonti indirette attestano la presenza di montanare nelle migrazioni stagionali in agricoltura o quali domestiche nelle città come presenze già consolidate in epoca moderna. A tale proposito mi sembra interessante la testimonianza che si ricava su queste donne attraverso la documentazione degli istituti assistenziali, a cui sovente ricorrevano nei periodi di disoccupazione, quando neppure la questua consentiva loro la sussistenza.[17] In queste contingenze non è trascurabile, però, neppure la quota di coloro che per ingenuità o estrema necessità divenivano prostitute - ultima ratio di quasi tutte le lavoratrici disoccupate -,[18] forse le uniche emigranti che si precludevano definitivamente il ritorno alla comunità d’origine.
Onde meglio comprendere l’ininfluenza del fattore tempo nella concreta conoscenza della migrante, mi sembra interessante riportare il pensiero di