1919, quando tornò (la prima volta) con un gruzzolo di più di mille sterline: tali risparmi gli permisero nel 1924 di comperare la trattoria Corona, dopo che gli invii di denaro precedenti avevano contribuito ad ampliare le proprietà di famiglia. Gli fu necessario tuttavia un secondo soggiorno di sette anni in Australia, per ampliare l’osteria che era il frutto di tanti anni di fatica, e solo nel 1930 poté rientrare definitivamente; riuscì anche a vedere nel 1967 l’inaugurazione dell’hotel «Corona», ristrutturato da suo figlio, prima di morire nel 1968. Dino S. partì invece nel 1951 per andare a fare il boscaiolo nel Western Australia, da dove rientrò nel 1959 soddisfatto di essersi garantito una vita decorosa, attraverso un sacrificio di otto anni, alleviato solo dalle costanti e premurose lettere della moglie, che lo ragguagliavano sui progressi dei figlioletti, e dalla speranza che, una volta rientrato in Italia, «nessuno mi potrà comandare, nessuno mi potrà dire».[15] Più di 80 anni separano il primo dal terzo esempio, ma il progetto migratorio si è ripetuto invariato, riproponendosi come un periodo di duro sacrificio individuale, finalizzato all’acquisizione di risorse per garantire all’intera famiglia un futuro migliore.
Molti anni fa, nel corso delle mie ricerche sull’emigrazione da una vallata biellese, mi sono imbattuta in casi ancora più significativi di tentativi di limitare l’esperienza migratoria al solo periodo lavorativo della vita. Prendiamo il caso di Davide Rosazza, che dopo 40 anni di duro lavoro come scalpellino nel New Hampshire, dopo essere divenuto proprietario di due cave di granito e di una casa, aver allevato i figli ed essere stato raggiunto da una sorella e un genero, pur avendo superato l’isolamento, la povertà, la barriera della lingua, nel 1911 vendette tutto per far finalmente ritorno alla valle di Andorno, nelle Alpi piemontesi, che evidentemente era rimasta perennemente la meta ultima di ogni suo sforzo.[16] Alla metà degli anni Ottanta, quando mi imbattei in questo e in altri casi simili, le tesi prevalenti sul ritorno degli emigranti erano quelle di Cerase.[17] Egli classificava il ritorno nelle quattro categorie del fallimento, della conservazione, dell’investimento e del pensionamento. Ad eccezione della terza, tali categorie configuravano il rientro sostanzialmente come variante del fallimento dell’esperienza migratoria, o meglio come uno stadio «di mancata o parziale integrazione», ma a me non pareva che come tale fosse stato vissuto dai protagonisti delle mie ricerche. Le testimonianze degli emigranti valtellinesi di cui disponiamo ora confermano invece che anche l’acquisto di proprietà agricole poté essere finalizzato al ritorno: nel 1929, Domenico Romedietti di Baruffini assunse la cittadinanza australiana per acquistare una tenuta da 1500 sterline, ma dalle sue lettere risulta chiara