I figli tuttavia mal sopportavano la presenza in casa di questi padri intrusi che intendevano dare ordini, e spesso il rientro di questi ultimi segnava il momento della loro partenza. Il più piccolo dei figli di Domenico Molinari, di Madonna di Tirano, aveva due anni nel 1888, quando il padre partì e 14 quando tornò pretendendo obbedienza, tanto che appena potè raggiunse il fratello in Australia, allontanandosi da quello che gli pareva come un estraneo. In modo analogo, molti anni dopo, nel 1928 un altro emigrante valtellinese, Antonio, dovette partire al rientro del padre, ma esprimendo con chiarezza nelle sue lettere la consapevolezza che i vantaggi materiali dell’emigrazione temporanea di quest’ultimo avevano comportato il prezzo della separazione della famiglia. Il biellese Arturo Gibellino di Roasio racconta nel suo libro La corte sisballana, del 1995, che «il papà, io non l’avevo conosciuto, perciò il papà era per me una lettera. Sapevo che le donne di casa mia, se la lettera non arrivava, piangevano di nascosto [.] Quando la mamma si metteva a scrivere la risposta, ancora lacrime. Insomma il mio papà era una lettera bianca piena di timbri e di lacrime. Ma un giorno, dopo tre anni di lacrime, il papà tornò. Lo potevo finalmente conoscere [...]. Che delusione quando lo vidi! Quell’uomo che mi correva incontro, in compagnia della mamma, era un omaccio vestito di scuro, con un cappello nero in tesa, dei lunghi baffi neri e gli occhi grigi taglienti come una lama. Ebbi paura e mi misi a strillare.»[29] Quindi gli emigranti al loro ritorno da assenze pluriennali sono stati spesso percepiti come estranei dalla comunità, e anche dai loro figli.
Un altro aspetto che spesso emerge dai ricordi degli emigranti è il doloroso perdurare, anche nel ritorno, di quel senso di estraneità che aveva caratterizzato la vita all’estero. Il momento tanto atteso ha prodotto gli esiti più incerti sul senso di appartenenza e gli episodi più evidenti di spaesamento.
«Dopo otto giorni di Inghilterra, arrivai in Italia. Arrivai al paese e mi sentivo uno straniero ed anche le parole mi venivan fuori con fatica - ha scritto il trentino Aldo Gios, rientrato dall’Australia -. Ricordai le parole del mio amico vecchietto: <Sarai uno straniero a casa tua.> Aveva ragione, era proprio così e sentivo la voglia di andare via. Tutto mi sembrava così stretto, le montagne, che tanto amavo, sembrava che mi cadessero addosso.»[30] Anche dall’esperienza di Massimiliano Aloisi, egli pure trentino, si percepisce qualcosa di analogo: rientrato a Rovereto nell’aprile del 1950, dopo 23 anni di Australia e con il programma di rimanervi un anno o due, dopo quattro mesi, dato che aveva visto tutto e tutti, decise di ritornare in Australia. Forse, questo secondo viaggio venne percepito come il vero ritorno a casa.[31] Un emigrante bergamasco, intervistato nel 2003, dice: «Tutti mi chiamavamo “nonno” e ho capito che dopo trentotto