dalla vita. Come ha raccontato un ex emigrante di Manchester, «quando si incontrano i vecchi amici, si ha la consapevolezza di avere visto posti diversi, di essere stato dall’altra parte della terra, di aver visto gente differente mentre loro no, loro sono stati sempre nella stessa routine esattamente come quando tu sei partito».[36] Piuttosto raramente tuttavia le testimonianze epistolari e memorialistiche confermano questo tipo di elaborazione della propria esperienza migratoria. L’aspetto dell’ arricchimento psicologico personale sembra del tutto in secondo ordine, rispetto a quelli della fatica e del sacrificio individuale. Affermazioni come quella di Beniamino Scandella, di Onore, nel Bergamasco, che nel 2004 dopo molti anni spesi nei cantieri del Medio Oriente dichiarava «Forse era quasi una voglia d’avventura» e che in altro passaggio ricordava «cose belle ne ho viste girando per il mondo: per esempio il deserto» sono abbastanza eccezionali. Più fedele ad una interpretazione maggiormente diffusa è la testimonianza del suo compaesano Alfonso Schiavi: «Per me lavorare in Svizzera, in Lussemburgo, in Belgio in Arabia o in Iraq era la stessa cosa: tu fai il tuo lavoro e basta e il resto non ti interessa.»[37]
D’altro lato, in molti degli scarni racconti degli «africani» di Roasio emerge come l’aver riportato a casa la pelle sia spesso considerato un premio remunerativo: «C’era la mosca tzè tzè, che se ti mordeva, ti mandava all’ altro mondo. Altri insetti ti facevano dormire per sempre. Serpenti velenosi circolavano, senza chiederti il permesso. Le meno pericolose erano le belve - racconta Gino Falzone, andato in Africa nel 1937. Chi moriva veniva subito sostituito. Riuscire era una questione di orgoglio e di prestigio, significava conquistarsi coi soldi la fiducia, e ottenere altri appalti, vincere una scommessa con noi stessi e con la vita.»[38]
Infine, in modo più positivo, alcune esperienze di ritorno hanno comportato la riscoperta e la valorizzazione della propria origine. Per i giovani australiani figli di trentini il viaggio nella terra dei padri ha comportato l’acquisizione di un nuovo orgoglio delle proprie origini, anche dovuto alla scoperta che quei luoghi non erano «come gli australiani si immaginano l’Italia», vale a dire né arretrati, né abbandonati, ma addirittura «alpine-style»: vale a dire con quel valore aggiunto di eleganza europea che permetteva di ascriversi, come in un episodio di agnizione, un’ascendenza più rispettabile di quanto si credesse, secondo i noti procedimenti di invenzione e di negoziazione dell’etnicità.[39]
È quindi sul piano delle emozioni, dei sentimenti di identità e di appartenenza che è possibile misurare la differenza di risultato fra i rientri dopo molti anni o addirittura dopo un’intera vita spesa all’estero e quelli stagionali. La dilatazione temporale delle assenze, anche se progettata in vista del ritorno,