LO STUDIO STORICO DELLA MIGRAZIONE E DELLA MOBILITÀ E IL «MODELLO ALPINO»
Sono ormai molti i lavori pubblicati negli ultimi anni in cui si avverte una crescente insoddisfazione nei confronti degli orientamenti che hanno a lungo dominato la ricerca storica su mobilità e migrazione. Una delle questioni più dibattute riguarda il grado di mobilità. A parere di alcuni autorevoli studiosi,[1] il semplice ma cruciale dato cumulativo che emerge dalle indagini più recenti è che le popolazioni europee di antico regime erano assai più mobili di quanto ritenessero i teorici della cosiddetta mobility transition, secondo i quali tra la fine del ’700 e gli inizi del ’900 i paesi europei sarebbero passati - soprattutto a causa dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione - da un regime di quasi totale sedentarietà a tassi elevatissimi di migrazione, che avrebbero fatto della mobilità uno dei tratti distintivi della modernità.[2] Non si nega ovviamente che le forme della mobilità abbiano subito grandi trasformazioni. Ma ben prima della fine dell 'ancien regime il volume dei flussi migratori appare già così elevato da rendere insostenibile e fuorviante un’opposizione dicotomica tra un’Europa tradizionalista, sedentaria, rurale e contadina e un’Europa modernizzata, mobile, urbana e industriale. Una seconda questione ampiamente dibattuta riguarda le cause della mobilità. Anche qui i risultati di numerosi studi recenti stanno mettendo in questione la validità di quel «paradigma della sedentarietà», come lo hanno chiamato alcuni critici,[3] che nella mobilità aveva visto semplicemente uno sradicamento, una pura economia dell’assenza, un fenomeno sostanzialmente passivo riconducibile principalmente a fattori di espulsione quali la pressione demografica o la povertà.
A scuotere questa immagine di un’Europa preindustriale geograficamente immobile e di una migrazione causata soltanto dal sovrappopolamento e dalla povertà hanno concorso diversi sviluppi storiografici. Per noi studiosi del mondo alpino, è gratificante constatare che un contributo non secondario sembra essere venuto proprio da ricerche sull’emigrazione dalle Alpi.
Non è fuori luogo notare che per decenni le tradizionali forme di emigrazione alpina e montana, pur oggetto di una copiosa letteratura specialistica,[4] erano state gradualmente sospinte ai margini della letteratura generale sull’emigrazione dall’importanza assunta nel corso del 19 e del 20 secolo dalla «grande emigrazione» transoceanica e dalle migrazioni interne verso le città, causa di tanta inquietudine politica e sociale.[5] Per varie ragioni, negli
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