per censurare una volta di più la donna che aveva deviato dalle consuetudini. Anche perché «l’emigrante si appropria in generale di vizi dei popoli fra i quali va a lavorare senza assimilarsene le virtù».[17]
La redenzione della emigrata di ritorno era un’azione sostenuta con convin- zione anche dai parenti, ai quali oltre ad impossessarsi delle rimesse inter- essava pure reimpadronirsi dell’ «unità» famigliare e lavorativa che la donna rappresentava, così da ricollocarla nel complesso dell’economia domestica senza gli effetti destabilizzanti dovuti all’emancipazione acquisita lavo- rando lontana da casa. Infatti l’esperienza migratoria significava innanzitutto una più alta considerazione di sé grazie alla dimostrata capacità di essere in grado di percepire autonomamente un reddito da lavoro.[18] Carte ecclesiastiche e amministrative propongono interessanti letture in filigrana sulla strategia di riabilitazione della migrante rientrata in seno alla famiglia, frutto della collaudata sinergia tra tutti coloro che potevano vantare una qualche autorità su di lei, un’azione che trovava Chiesa, autorità civili e famiglia alleate nel convinto obiettivo del suo riscatto, con l’aggravante portata dal sistema di riprovazione che stigmatizzava le patologie acquisite in emigrazione come segni palesi di ignominiose colpe. Disconoscendo, invece, l’unico autentico malessere delle rientrate: l’angoscia dello spaesamento, che a volte diveniva una vera e propria sindrome psicotica.[19] Su tale scenario non mancavano tes- timonianze alternative in difesa della donna, perlopiù di matrice laica, ma non erano tali da incidere sugli atteggiamenti collettivi e restavano circoscritte a circoli intellettuali ininfluenti sull’ opinione pubblica,[20] così da non mettere in discussione l’autorevolezza di ciò che veniva detto dal pulpito.
L’emigrazione ha rappresentato un significativo segmento di vita per un’ampia parte della popolazione e durante l’industrializzazione ha contribuito fortemente alla costruzione sociale dei generi,[21] nonché alla definizione della rappresentazione sociale della lavoratrice. Di qui l’importanza di comprendere il ruolo di questa figura nelle sue molte sfaccettature, non ultimo attraverso la sua artificiosa svalutazione: apparentemente sociale, ma nella realtà asservita ad uno scopo economico.[22] In tale accezione è opportuno ricordare che la via del progresso per le donne è stata lunga e tortuosa, segnata da periodi di autentica regressione sociale nelle prime fasi dell’industrializzazione, sovente aggravata dal coincidente duro impatto dell’inurbamento, una condizione necessaria però all’evoluzione femminile; infatti, l’allontanamento della donna dalla fami- glia d’origine rompeva l’ancestrale catena che «attraverso gli insegnamenti e l’esempio della madre perpetuava nelle figlie l’ideologia patriarcale»[23] e