il suo naturale destino di casalinga e madre,[27] al punto che un grande esperto di emigrazione montanara quale era quella trentina - il dirigente dell’Ufficio per la Mediazione del Lavoro di Trento Nicolò Riccardo Bonfanti -, ancora alla vigilia della Grande Guerra scriveva in proposito: «come sarà possibile avere future generazioni forti e robuste sì fisicamente che moralmente, se la radice dalla quale quelle future generazioni devono sorgere è guasta?»[28]
E per «radice guasta» intendeva colei che aveva praticato l’emigrazione. La svalutazione della donna non avrebbe potuto essere più esplicita, perché era colpita proprio in ciò che la cultura di origine riteneva essere la sua più alta realizzazione: la maternità. Gli faceva eco la preoccupazione di Pasquale Vil- lari per le emigranti friulane, parlando addirittura de «l’impoverimento della razza»;[29] l’assioma donna-salute-emigrazione era all’attenzione degli studiosi che ne descrivevano le funeste conseguenze, senza però proporre come evitarle. Villari rilevava le pessime condizioni di vita delle migranti, impegnate in fati- cosi e malsani lavori, mal pagate, peggio nutrite e alloggiate promiscuamente con gli uomini, e questo in un’età per lo più compresa tra i 14 e i 18 anni; il Nostro delineava una situazione sicura foriera di futuri problemi di salute e di riprovazione morale per le emigrate di ritorno.[30]
In un altro suo scritto Villari descriveva una delle più nefaste conseguenze portate in patria dalla mobilità: l’alcoolismo (che è cosa diversa dall’ubriachezza preindustriale), un problema misconosciuto prima, un vero flagello che tor- mentava soprattutto i lavoratori migranti, ma che indeboliva l’intero corpo sociale. L’emigrazione femminile aveva diffuso questa piaga anche tra le donne, la dipendenza che gli era tipica lo rendeva inguaribile e degenerava in pesanti patologie a carico del sistema nervoso, così che «la spesa pei pazzi a carico della Provincia è andato enormemente crescendo [...] che al vizio funesto dell’alcoolismo contribuisca l’emigrazione, non credo che si possa mettere in dubbio».[31]
Né si poteva mettere in dubbio che la maggioranza dei ricoverati nei manicomi fossero donne. Nel 1909 lo psichiatra Emilio Duse, direttore del Manicomio provinciale bellunese di Ponte delle Alpi, asseriva che l’alcolismo femmi- nile era diventato una triste realtà nelle aree migratorie settentrionali e che l’emigrazione era «in rapporto diretto con l’intensità dell’alcoolismo e della pazzia, in rapporto inverso con l’intensità della pellagra e deve essere ritenuto un agente causale di molto valore».[32]
A significare che se la pellagra di coloro che restavano in patria diminuiva grazie alle rimesse dei migranti, l’alcoolismo e la pazzia in cui si smarrivano